Perché Reiki non è amore: una lettura critica e culturale

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

Reiki amore fisica quantistica

L’associazione tra Reiki e amore è uno dei luoghi comuni più persistenti nel discorso occidentale contemporaneo sulle pratiche di benessere. Si tratta di una narrazione che ha avuto enorme successo comunicativo, ma che – se osservata da una prospettiva antropologica e critica – rivela dinamiche culturali tutt’altro che neutrali. Dire che “Reiki è amore” non è una semplice metafora emotiva: è una presa di posizione simbolica che merita di essere problematizzata.

L’universalismo affettivo e i rischi dell’oggettivazione

Uno degli elementi più evidenti – e allo stesso tempo meno interrogati – nell’affermazione “Reiki è amore” è la sua natura di universalismo affettivo: un’idea secondo cui l’amore, inteso come sentimento positivo, empatico, avvolgente, possa costituire la chiave interpretativa assoluta e valida per tutti dell’esperienza Reiki.

Ma ogni universalismo porta con sé un rischio epistemologico e politico. In questo caso, il rischio è duplice: da un lato, si produce una oggettivazione del vissuto, che viene inglobato in una categoria affettiva generalizzata, perdendo così la sua densità, la sua ambivalenza, la sua irriducibile particolarità; dall’altro lato, si costruisce un dispositivo di legittimazione morale, in cui tutto ciò che non rientra nella cornice dell’amore (inteso come valore morale positivo) viene implicitamente delegittimato.

Dal punto di vista antropologico, quando un concetto come amore, luce o guarigione viene assolutizzato, non descrive più un possibile aspetto dell’esperienza, ma si trasforma in un criterio normativo. In questo modo, si genera una moralizzazione implicita del campo terapeutico: se Reiki è amore, allora tutto ciò che è percepito come “non amore” – rabbia, dolore, ambivalenza, conflitto – rischia di essere interpretato come un ostacolo, un errore, qualcosa da rimuovere, correggere o, peggio, reprimere.

Si entra così in una logica binaria: amore/non-amore, luce/oscurità, armonia/disarmonia, Reiki/non-Reiki. Ma questa struttura dualistica, oltre a non rispecchiare la complessità del vissuto umano, può produrre effetti perversi proprio nei contesti in cui si propone di guarire. Laddove la pratica dovrebbe essere spazio di accoglienza dell’intero spettro dell’esperienza, l’universalismo affettivo può agire come meccanismo di esclusione simbolica, silenziando ciò che non rientra nel paradigma positivo.

In altre parole, ciò che non è “amore” diventa invisibile o indicibile, e questo rischia di neutralizzare la potenzialità trasformativa della pratica. Perché non si guarisce solo nella luce, nella gentilezza e nella pace: si guarisce anche attraversando l’ambiguità, sostando nel disorientamento, riconoscendo la presenza del limite, della frattura, della paura. E sono proprio queste esperienze, spesso considerate “non spirituali”, che attivano in profondità il lavoro sul sé e sulla relazione.

Infine, l’universalismo affettivo agisce anche come tecnologia del consenso spirituale: rende la pratica accettabile, comunicabile e vendibile, inserendola in una retorica terapeutica compatibile con il benessere di consumo. In questo senso, l’idea che “Reiki è amore” non è neutra, ma è parte di un dispositivo discorsivo normalizzante, che addomestica la pratica per renderla inoffensiva, rassicurante, facilmente esportabile – ma, proprio per questo, depotenziata nella sua capacità di scavo e di alterazione.

Rendere conto della complessità del vissuto non significa negare la possibilità della cura o della trasformazione, ma restituire alla pratica la sua profondità esperienziale, la sua carica etica e la sua radicale apertura. Il Reiki, se vuole restare fedele alla sua natura relazionale e situata, non può essere ridotto a un’etichetta affettiva universale. Deve, piuttosto, essere restituito come spazio critico, plurale, non addomesticato.

L’equivalenza Reiki = Amore come costruzione culturale (e colonizzazione simbolica)

Attribuire al Reiki il significato di “amore” è molto più che una semplificazione linguistica: è una vera e propria costruzione culturale situata, emersa in contesti spirituali occidentali – in particolare nell’ambito del movimento New Age e post-New Age – dove l’esperienza energetica viene frequentemente risemantizzata in chiave affettiva, morale e universalista.

In questi contesti, “amore” non è soltanto un’emozione: è una parola-chiave, un dispositivo simbolico che legittima, spiritualizza e depura qualsiasi pratica. Quando si dice che “Reiki è amore”, si compie un’operazione discorsiva che traduce e insieme trasforma radicalmente la pratica, dislocandola dal suo orizzonte semantico originario per reinscriverla all’interno di una grammatica spirituale tipicamente occidentale, basata su concetti morali, su dualismi luce/ombra, positivo/negativo, guarigione/amore.

Dal punto di vista decoloniale, questo processo può essere letto come una forma sottile ma potente di appropriazione epistemica: una modalità attraverso cui una pratica nata in un contesto storico, filosofico e linguistico altro – il Giappone di inizio Novecento – viene rimodellata secondo aspettative, codici simbolici e categorie affettive provenienti da una cultura egemonica. Ciò che avviene non è soltanto una traduzione, ma una trasformazione strutturale del significato, che cancella le genealogie non occidentali per sostituirle con narrazioni spirituali universalizzanti e rassicuranti.

Nel contesto giapponese, infatti, il termine Reiki è composto dai kanji 霊 (rei) e 気 (ki). Il primo allude al non manifesto, all’impalpabile, a ciò che eccede la determinazione concettuale; il secondo designa l’energia vitale, la forza sottile che attraversa i fenomeni viventi. Nessuno dei due rimanda all’amore in senso relazionale o sentimentale. Il termine non evoca un sentimento, ma una condizione di possibilità, una dinamica, una soglia.

L’equivalenza tra Reiki e amore è quindi una riformulazione simbolica prodotta in Occidente, che riflette specifici bisogni spirituali e culturali – tra cui il desiderio di redenzione, di positività incondizionata, di cura depoliticizzata – più che una fedeltà alle fonti giapponesi o alla grammatica originaria della pratica. Si tratta, in altri termini, di un’interpretazione affettiva ideologicamente marcata, che funziona all’interno di un sistema culturale preciso, ma che troppo spesso viene proposta come “universale”.

Problematizzare questa lettura non significa negare il valore trasformativo della relazione terapeutica né svalutare la gentilezza, la compassione o l’apertura. Significa però rifiutare la tendenza coloniale a ricodificare le pratiche dell’altro secondo gli schemi del proprio sistema simbolico, spogliandole della loro complessità e della loro irriducibile alterità.

In un contesto come quello italiano – in cui il Reiki è spesso rappresentato attraverso linguaggi spiritualisti di ispirazione cristiana, induista o new age – è fondamentale restituire alla pratica la sua storicità, la sua stratificazione culturale, e con essa il diritto a non essere tradotta solo in ciò che ci è già familiare.

Un altro modo di pensare il Reiki: il Vuoto, la risonanza e l’intenzionalità terapeutica

Nel mio approccio, preferisco evitare definizioni affettive o spiritualizzanti e considero il Reiki come relazione con il Vuoto – inteso non come assenza o astrazione metafisica, ma come orizzonte dinamico di possibilità, come spazio generativo in cui si incontrano corpo, attenzione e cura. Il Vuoto, in questo senso, non è da pensare come qualcosa di separato dal mondo manifesto, bensì come struttura relazionale dell’esperienza, da cui ogni atto terapeutico riceve forma e direzione.

L’energia Reiki non è una “sostanza” che fluisce automaticamente, né una forza intelligente che “sa dove andare”. Non si tratta di canalizzare un’entità autonoma, ma di praticare una forma di intenzionalità incarnata: un agire terapeutico che nasce dalla centratura, dalla consapevolezza percettiva e dalla qualità della presenza. In questa prospettiva, il Reiki non “accade”, si pratica. E si pratica attraverso il corpo, nel gesto, nello spazio condiviso con l’altro.

La risonanza che si crea nel trattamento Reiki non è il prodotto di un abbandono, ma l’esito di una postura attiva, intenzionale e responsabile. Il terapeuta Reiki non “lascia fare all’energia”: osserva, ascolta, orienta. Non con la volontà di dirigere dall’alto, ma con l’attenzione etica di chi si pone in relazione con la sofferenza dell’altro e cerca un punto di contatto, una frequenza comune.

In questo senso, la pratica Reiki si struttura come una forma di azione terapeutica intenzionale, che implica competenza tecnica, sensibilità percettiva e consapevolezza dei processi intersoggettivi. La sospensione del giudizio, il silenzio, la calma interiore – spesso associati allo stato di munen musō nella cultura giapponese – non sono gesti passivi, ma modalità operative dell’intenzione, forme incarnate di un agire terapeutico che si sottrae tanto all’automatismo quanto al controllo.

Potremmo dire che ciò che distingue il Reiki da altre forme di contatto è proprio questa intenzionalità non direttiva ma presente, questa capacità di tenere insieme il fare e il non-forzare, l’azione e l’ascolto. Una forma di cura che non è emissione di energia, ma presenza orientata, capace di generare risonanza, regolare i disequilibri, sostenere il processo di guarigione senza sostituirsi ad esso.

In ultima analisi, Reiki non è né passività né potere: è relazione terapeutica consapevole, azione incarnata in un campo condiviso, che si costruisce ogni volta nell’incontro tra due soggettività e nelle possibilità che quel momento – e solo quel momento – rende disponibili.

Perché questa narrazione ci riguarda

Lavorare con il Reiki significa, inevitabilmente, abitare una costellazione di discorsi, immagini e aspettative. La pratica non esiste mai in uno spazio neutro: è sempre già attraversata da interpretazioni, da codici simbolici, da ciò che le persone si aspettano che “sia”. Per questo, interrogare i discorsi che circondano il Reiki – anche (e soprattutto) quelli più rassicuranti – è un atto politico e formativo insieme. Smascherare le semplificazioni, problematizzare le narrazioni dominanti, non è un gesto di rottura, ma un invito a riconoscere la complessità.

Dire che Reiki non è amore non implica negare il valore della gentilezza, dell’apertura o della compassione. Significa però sottrarre la pratica a una semantica dell’“emozione positiva” che spesso anestetizza il reale, impedendo di vedere che i processi di trasformazione e di cura sono quasi sempre abitati dall’ambivalenza, dalla resistenza, dal dolore e da ciò che non può essere immediatamente accolto.

In altre parole, non tutto ciò che guarisce deve essere addomesticato nel linguaggio dell’affetto. Esistono forme di guarigione che passano attraverso il conflitto, l’attrito, il disorientamento. E il Reiki, nella sua forma più profonda, può anche essere questo: non una carezza spirituale, ma uno spazio di verità non consolatoria.

Ridurre il Reiki ad “amore” significa proiettarvi un immaginario culturalmente determinato, spesso legato a una visione spiritualista ed edulcorata della cura, dove l’energia viene rappresentata come forza unidirezionale e moralmente buona. Ma la pratica, se presa sul serio, non conferma i nostri significati: li trasforma. E ci chiama a stare anche nelle soglie, nei vuoti, nei non-detti.

È per questo che, nei nostri percorsi formativi, la riflessione sui discorsi è parte integrante dell’apprendimento: non per “spiegare” il Reiki, ma per creare le condizioni affinché ciascuno possa incontrarlo senza filtri imposti, senza metafore obbligate, senza l’illusione che guarire significhi sempre sentirsi meglio.

🔍 Mini-glossario

Reiki
Metodo giapponese di cura fondato da Usui Mikao negli anni ’20 del Novecento, basato su tecniche di tocco, meditazione e centratura. Non è una tecnica energetica nel senso occidentale, ma una pratica relazionale e corporea.

Universalismo affettivo
Tendenza a interpretare le pratiche di cura attraverso categorie affettive generalizzate (come “amore” o “luce”), trasformandole in valori normativi e moralizzanti.

Oggettivazione
Processo attraverso cui un’esperienza complessa e situata viene ridotta a concetto fisso o etichetta astratta, perdendo la sua ambivalenza e specificità.

Risonanza
Nel contesto della pratica Reiki, indica una dinamica relazionale in cui il corpo dell’altro risponde a una qualità di presenza consapevole e intenzionale, senza forzature né proiezioni.

Munen musō (無念無想)
Espressione giapponese che significa “assenza di pensiero e intenzione”. Nella pratica Reiki tradizionale, descrive una disposizione mentale di attenzione silenziosa e non giudicante, che sostiene l’efficacia del gesto terapeutico.

Approccio decoloniale
Prospettiva critica che mette in discussione le narrazioni egemoniche occidentali, evidenziando i processi di appropriazione, semplificazione o risemantizzazione delle pratiche culturali non europee.

Vuoto (空, kū)
Nella filosofia giapponese e buddhista, indica una condizione di apertura, potenzialità e non-determinazione. In ambito Reiki, viene talvolta associato alla qualità non oggettivabile dell’energia e della relazione terapeutica.

L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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