Da qualche tempo circola una teoria affascinante quanto problematica: l’idea che Mikao Usui non sia il vero fondatore del Reiki. Secondo questa ipotesi, il “vero” iniziatore sarebbe Tokio Yokoi, un pastore cristiano giapponese vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma cosa significa davvero raccontare una storia del genere? E soprattutto, quali sono le implicazioni culturali e politiche di una riscrittura simile?
Nel mio articolo Rewriting Reiki: the Yokoi hypothesis and the politics of spiritual whiteness analizzo questa teoria non come semplice curiosità storiografica, ma come un sintomo. Un sintomo di come il Reiki, una pratica nata in Giappone e profondamente intrecciata con etica, ritualità e cosmologie buddhiste, venga spesso riscritto per adattarsi ai gusti spirituali del pubblico occidentale. In questa riscrittura, le sue radici asiatiche vengono depotenziate o rimosse, mentre si fa spazio a un’origine “più neutra”, “più cristiana”, “più universale” — ovvero, in termini critici, più bianca.
L’ipotesi Yokoi funziona così come una forma di whitewashing spirituale: un’operazione discorsiva che cancella l’alterità e reinscrive la pratica in un quadro compatibile con la sensibilità euroamericana. Non si tratta solo di appropriazione culturale, ma di una vera e propria reterritorializzazione religiosa, in cui il Reiki viene “ripulito” dalle sue componenti buddhiste e asiatiche per diventare accettabile nei contesti del benessere globale, del coaching spirituale e della spiritualità neoliberale.
Raccontare una storia come quella di Yokoi non è mai neutro: significa decidere chi può essere riconosciuto come “vero” maestro, chi è ritenuto credibile, quali genealogie sono legittime — e quali invece vanno dimenticate. Significa, in altre parole, riprodurre gerarchie storiche e razziali che mettono in secondo piano le voci non occidentali, trasformando la differenza culturale in qualcosa da consumare, semplificare, oppure spiritualizzare — purché non metta in discussione il nostro senso di familiarità.
Questo articolo è un invito a riflettere criticamente sulle narrazioni che diamo per scontate. A riconoscere i meccanismi coloniali che si attivano anche dove si parla di “luce”, “energia” e “guarigione”. E a domandarci: chi ha il potere di raccontare le storie del Reiki? E cosa perdiamo ogni volta che, per renderlo più vicino, lo rendiamo meno giapponese?
L’articolo è disponibile qui in lingua inglese
La traduzione in italiano è invece disponibile qui