Reiki e bianchezza: perché l’ipotesi Yokoi riscrive (e cancella) il Giappone

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

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Da qualche tempo circola una teoria affascinante quanto problematica: l’idea che Mikao Usui non sia il vero fondatore del Reiki. Secondo questa ipotesi, il “vero” iniziatore sarebbe Tokio Yokoi, un pastore cristiano giapponese vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma cosa significa davvero raccontare una storia del genere? E soprattutto, quali sono le implicazioni culturali e politiche di una riscrittura simile?

Nel mio articolo Rewriting Reiki: the Yokoi hypothesis and the politics of spiritual whiteness analizzo questa teoria non come semplice curiosità storiografica, ma come un sintomo. Un sintomo di come il Reiki, una pratica nata in Giappone e profondamente intrecciata con etica, ritualità e cosmologie buddhiste, venga spesso riscritto per adattarsi ai gusti spirituali del pubblico occidentale. In questa riscrittura, le sue radici asiatiche vengono depotenziate o rimosse, mentre si fa spazio a un’origine “più neutra”, “più cristiana”, “più universale” — ovvero, in termini critici, più bianca.

L’ipotesi Yokoi funziona così come una forma di whitewashing spirituale: un’operazione discorsiva che cancella l’alterità e reinscrive la pratica in un quadro compatibile con la sensibilità euroamericana. Non si tratta solo di appropriazione culturale, ma di una vera e propria reterritorializzazione religiosa, in cui il Reiki viene “ripulito” dalle sue componenti buddhiste e asiatiche per diventare accettabile nei contesti del benessere globale, del coaching spirituale e della spiritualità neoliberale.

Raccontare una storia come quella di Yokoi non è mai neutro: significa decidere chi può essere riconosciuto come “vero” maestro, chi è ritenuto credibile, quali genealogie sono legittime — e quali invece vanno dimenticate. Significa, in altre parole, riprodurre gerarchie storiche e razziali che mettono in secondo piano le voci non occidentali, trasformando la differenza culturale in qualcosa da consumare, semplificare, oppure spiritualizzare — purché non metta in discussione il nostro senso di familiarità.

Questo articolo è un invito a riflettere criticamente sulle narrazioni che diamo per scontate. A riconoscere i meccanismi coloniali che si attivano anche dove si parla di “luce”, “energia” e “guarigione”. E a domandarci: chi ha il potere di raccontare le storie del Reiki? E cosa perdiamo ogni volta che, per renderlo più vicino, lo rendiamo meno giapponese?

L’articolo è disponibile qui in lingua inglese

La traduzione in italiano è invece disponibile qui

L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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