L’ossessione della purezza: Reiki, autenticità e la politica della tradizione

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

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📚 Abstract

A partire dal discorso pubblico dell’Associazione Italiana Reiki, questo articolo propone un’analisi critica delle retoriche dell’autenticità e dei dispositivi spirituali che definiscono cosa può essere considerato “Reiki puro”.
Cosa accade quando una pratica viene legittimata attraverso l’idea di “purezza”? L’obiettivo è decostruire il concetto di “Reiki autentico” alla luce della genealogia culturale e discorsiva in cui si inscrive. Attraverso una riflessione teorica che mette in dialogo Barthes, Foucault, Butler e Stein, si mette in discussione l’uso istituzionale della “tradizione” come garanzia di verità, mostrando come tale costruzione produca effetti di inclusione, esclusione e razzializzazione spirituale. Il Reiki viene così riconfigurato come pratica transculturale, storicamente situata, e potenzialmente decoloniale.

Cosa significa dire “Reiki autentico”? Quali immaginari si attivano quando si parla di “purezza”, “originalità”, “fedeltà agli insegnamenti di Usui”? E, soprattutto, chi ha il potere di decidere cosa è autentico, e a quale costo simbolico viene prodotta tale autenticazione?

Nel panorama del Reiki contemporaneo, questi termini non sono neutri. Compaiono con frequenza nei discorsi istituzionali, nei materiali di formazione, nei siti delle associazioni, configurandosi come dispositivi che stabiliscono confini, attribuiscono legittimità, producono esclusioni. La promessa di trasmettere il “vero Reiki” offre rassicurazione in un contesto spirituale frammentato, mobile, attraversato da sincretismi e contraddizioni. Ma proprio questo bisogno di stabilità, di coerenza, di ordine, rende urgente una riflessione critica. Perché l’autenticità, lungi dall’essere un dato oggettivo, è una costruzione culturale, discorsiva, performativa. E come ogni costruzione, può — e forse deve — essere interrogata.

A partire dall’analisi del linguaggio adottato da alcune realtà italiane, come l’Associazione Italiana Reiki, e mettendo in dialogo le pratiche del Reiki con i contributi delle teorie postcoloniali, degli studi culturali e dell’antropologia critica, questo articolo propone di decostruire le retoriche dell’autenticità e della purezza. Riconoscendo il carattere profondamente transculturale, stratificato e geopoliticamente situato del Reiki contemporaneo, si suggerisce di spostare lo sguardo: dall’ossessione per l’origine alla responsabilità del posizionamento, dal culto della fedeltà alla consapevolezza dei contesti.

Non si tratta di negare valore a nessuna esperienza. Al contrario, si tratta di creare uno spazio discorsivo che permetta alle differenze di emergere senza essere marginalizzate, e alle genealogie di essere esplorate senza essere ridotte a dogma. Perché forse, in ultima analisi, non si tratta di custodire un’eredità immutabile, ma di rispondere con etica e lucidità alle domande che le nostre pratiche ci pongono. Non per essere “autentici”, ma per essere consapevoli.

L’illusione dell’autenticità: chi decide cosa è “puro”?

Nel campo del Reiki, come in molte pratiche spirituali contemporanee, parole come “autentico”, “originale” o “puro” non sono semplici etichette descrittive. Sono operatori simbolici che costruiscono gerarchie di valore: distinguono tra ciò che sarebbe legittimo e ciò che devierebbe dall’origine. È esattamente ciò che Roland Barthes ha definito mitologia: un discorso che si finge naturale ma che, in realtà, cancella le sue condizioni storiche e culturali di produzione, presentando la propria visione del mondo come l’unica possibile (Barthes: 1957).

Un esempio particolarmente eloquente è offerto dal sito dell’Associazione Italiana Reiki (A.I.RE.), la quale si presenta come «l’unica scuola in Italia a trasmettere il Reiki Tradizionale Giapponese nella sua forma autentica, senza influenze del Reiki occidentale o contaminazioni New Age». La stessa logica è reiterata nel testo Cos’è Reiki, dove si racconta una narrazione delle origini che colloca il Reiki all’interno di un’antichissima tradizione universale di guarigione energetica, custodita da civiltà arcaiche come i tibetani, gli indiani o gli egizi, per poi affermare che tale saggezza sarebbe riemersa nel metodo di Mikao Usui. Questa narrazione ha una precisa struttura semiotica: costruisce una linea genealogica di tipo mitico, che va da un’energia primordiale pre-culturale all’attualità del Reiki contemporaneo, saltando le mediazioni storiche, le trasformazioni contestuali, le contaminazioni concrete.

Dal punto di vista discorsivo, questa strategia si fonda su tre coppie oppositive: origine vs deviazione, tradizione vs contaminazione, fedeltà vs modernizzazione. È una topologia binaria che opera — per usare le parole di Michel Foucault — come dispositivo di verità: costruisce ciò che può essere riconosciuto come “vero Reiki”, e insieme ciò che va escluso, delegittimato, marginalizzato (Foucault: 1980). Così, “l’insegnamento autentico” diventa una formula normativa che permette di esercitare potere non solo sulla trasmissione, ma anche sull’identità dei praticanti e sul riconoscimento istituzionale dei percorsi formativi.

In questa configurazione, l’autorevolezza spirituale si fonda sulla ripetizione di un’origine fittizia. Judith Butler ha mostrato come la performatività sia proprio questo: un atto che produce l’illusione di una continuità con l’origine, reiterando norme che si legittimano nel momento stesso in cui vengono ripetute (Butler: 1993). L’A.I.RE. non si limita a descrivere una modalità del Reiki: la istituisce come unica, costruendo attraverso il linguaggio una forma di autorità che appare naturale ma è in realtà il frutto di un lavoro discorsivo intenzionale.

Questa operazione, tuttavia, non è senza conseguenze. Come ho mostrato nel mio articolo sul razzismo spirituale, l’invocazione alla purezza si inserisce in una genealogia culturale che affonda le radici nel pensiero esoterico europeo novecentesco, da Evola in poi, e riproduce oggi forme di gerarchizzazione episteme-spirituale, dove il sapere “autentico” è sempre quello più vicino all’idealizzazione dell’Oriente arcaico, mentre le pratiche ibride, sincretiche, occidentali vengono presentate come degradazioni.

In questo senso, l’autenticità non è un valore spirituale, ma un dispositivo di inclusione/esclusione. E ogni volta che una tradizione viene evocata per cancellare la complessità dei suoi passaggi storici, ciò che si produce non è fedeltà, ma potere.

📦 Box analitico — “Cos’è Reiki” come discorso mitico

Il testo Cos’è Reiki, pubblicato sul sito dell’Associazione Italiana Reiki, è un esempio paradigmatico di discorso spirituale mitologizzato, nel senso barthesiano del termine. La narrazione costruisce un’origine unica e sacralizzata del Reiki, iscrivendolo in una linea di continuità ideale che attraversa le grandi civiltà del passato (Tibet, India, Egitto), le “scuole dei misteri”, fino al “risveglio” operato da Usui.

In termini semiotici, questa struttura ha due funzioni:

  • Naturalizzazione: il Reiki viene presentato come una manifestazione contemporanea di una verità cosmica eterna, pre-culturale, atemporale.
  • Universalizzazione: l’energia Reiki è assimilata a concetti presenti in altre religioni e cosmologie (Chi, Prana, Spirito Santo), producendo un effetto di sincretismo invisibile che rafforza l’idea di una spiritualità universale e neutra.

Dal punto di vista del potere discorsivo, questa narrazione agisce come dispositivo di legittimazione: chi si allinea a questa visione è dentro il “vero Reiki”; chi se ne discosta, diventa portatore di “contaminazioni”.
Come in ogni mitologia, ciò che viene omesso è la storicità: i passaggi intermedi, le trasformazioni, i conflitti interpretativi, le pratiche minori o marginali.

📌 In sintesi: Cos’è Reiki non spiega cos’è il Reiki, ma costruisce ciò che può essere detto come Reiki — delimitando così il campo dell’autenticità e rendendolo dispositivo di esclusione.

Reiki come pratica transculturale

La storia del Reiki non è la storia di una trasmissione lineare e omogenea. È, piuttosto, la traiettoria mobile e discontinua di una pratica che si è formata, trasformata e risignificata attraverso relazioni transculturali, ibridazioni e traduzioni — non sempre simmetriche — tra Giappone, Stati Uniti, Europa e, più recentemente, India. Pensare al Reiki come qualcosa di “puro” o “intatto” significa ignorare il fatto che ogni pratica viva si struttura attraverso il tempo come narrazione complessa, soggetta a interpretazione, ricontestualizzazione, e selezione culturale. È ciò che Paul Ricoeur definirebbe una trama, non una sequenza ordinata di eventi originari.

Come ha mostrato Fernando Ortiz, la transculturazione è un processo in cui non solo le pratiche si diffondono, ma mutano entrando in contatto con altre. Non c’è trasmissione senza trasformazione. In questo senso, il Reiki non può essere pensato come un oggetto stabile che viaggia, ma come una formazione discorsiva instabile che si reinventa continuamente in funzione dei contesti in cui viene praticata. È proprio in questa mobilità che si annida la sua vitalità — e anche la sua politicità.

Come ha mostrato Justin Stein nel suo studio storico sulle traiettorie del Reiki nel Pacifico del ventesimo secolo, «rather than a singular lineage, Reiki emerged through overlapping translations, appropriations, and reformulations across cultural, linguistic, and religious boundaries» (Stein: 2023). In altre parole, il Reiki non si trasmette in modo puro o lineare, ma si struttura come una pratica profondamente transculturale, frutto di processi di adattamento e riscrittura continui.

Stuart Hall ha insistito su come le identità culturali non siano mai originarie, ma siano costruite attraverso differenze e negoziazioni: ciò che chiamiamo “tradizione giapponese” non è una radice fissa, ma una posizione assunta, spesso retroattivamente, a partire da uno sguardo situato (Hall: 1996). Il Reiki, in quanto discorso spirituale globalizzato, è un esempio paradigmatico di ciò che Homi Bhabha definisce ambivalenza culturale: esso vive nello “spazio interstiziale” tra pratiche locali e sguardi globali, tra rivendicazioni di autenticità e atti di reinscrizione creativa (Bhabha: 1994). Proprio per questo, ogni tentativo di fissarne un’origine “pura” tradisce la sua natura profondamente diasporica.

L’affermazione di trasmettere “il Reiki giapponese nella sua forma autentica”, “senza influenze” esterne, va dunque letta come un tentativo di cancellare la contingenza della storia, e di produrre una presenza piena là dove vi è sempre differenza, mancanza, riscrittura. Come ha mostrato Jacques Derrida, ogni testo — e ogni pratica è anche un testo — è abitato da ciò che esclude, da ciò che ne consente il funzionamento proprio attraverso l’assenza (Derrida: 1967). Dire “Reiki giapponese” è già un gesto interpretativo che omette le altre genealogie, le altre letture, gli altri corpi che ne hanno incarnato la trasformazione.

In questa luce, il Reiki non può essere considerato semplicemente “giapponese”, ma si configura come una pratica decoloniale potenziale — a patto che si riconosca la pluralità delle sue traiettorie e la geopolitica della sua diffusione. Come ha scritto Walter Mignolo, ciò che viene presentato come “universale” è spesso il risultato di una epistemologia geopoliticamente localizzata che si spaccia per neutra (Mignolo: 2009). Allo stesso modo, il “Reiki autentico” è sempre l’esito di una scelta: posizionata, selettiva, culturalmente marcata. Decostruire questa finzione non significa abbandonare il Reiki, ma, al contrario, prenderlo sul serio.

Purezza spirituale e razzializzazione del sapere

Nel linguaggio spirituale contemporaneo, l’idea di purezza agisce come un operatore mitico e disciplinare. Evocata per distinguere ciò che è incontaminato da ciò che è adulterato, la purezza spirituale non si limita a produrre gerarchie di contenuti: organizza corpi, istituzioni e autorità. Come hanno mostrato numerosi studi postcoloniali, ogni pretesa di “ritorno all’origine” implica una logica selettiva, un filtro attraverso cui si stabilisce cosa ha valore e cosa va escluso. È questo il dispositivo discorsivo con cui si produce una forma specifica di potere: il potere di autenticare.

Nel contesto italiano, tale discorso non è privo di una genealogia ideologica. Come ho mostrato nel mio articolo, l’immaginario di un Giappone spiritualmente “puro” trova un precedente strutturale nel pensiero di Julius Evola, per il quale alcune civiltà — e alcuni popoli — sarebbero ontologicamente predisposti a custodire la verticalità metafisica, mentre altri resterebbero confinati nell’immanenza. Si tratta di una forma di razzismo spirituale, in cui la gerarchia non si fonda su tratti biologici ma su presunte disposizioni interiori, “razze dello spirito” (Evola: 1931). In questo schema, il Giappone è idealizzato come luogo sovranazionale della Tradizione con la “T” maiuscola — e il soggetto bianco europeo può legittimarsi come suo interprete e custode autorizzato.

È qui che il discorso sull’autenticità spirituale si intreccia con quello dell’orientalismo, nel senso indicato da Edward Said: non si tratta solo di rappresentare l’altro, ma di farlo in modo tale da renderlo interpretabile, assimilabile, disponibile (Said: 1978). Il Reiki “giapponese puro” viene così costruito come oggetto di desiderio, ma anche come silenzioso garante dell’autorità di chi, in Europa, ne rivendica la fedeltà. Si tratta di una dinamica che Ann Laura Stoler ha definito imperial intimacy: una relazione affettiva e politica con l’altro coloniale che permette al soggetto occidentale di costruire la propria identità spirituale attraverso la appropriazione disciplinata dell’esotico (Stoler: 2002).

Il dispositivo della purezza non opera solo a livello di contenuto, ma si iscrive nei corpi e nelle pratiche. Come Judith Butler ha mostrato con la nozione di performatività, ogni atto di ripetizione normativa — in questo caso, “trasmettere gli insegnamenti originali di Usui” — produce l’illusione di una continuità con un’origine che, in realtà, non è mai stata pienamente presente (Butler: 1993). In questo senso, anche la spiritualità è performata attraverso esclusioni: il corpo che “non pratica correttamente”, che “contamina”, che “occidentalizza”, è reso deviante, minoritario, delegittimato.

Allo stesso tempo, l’identità spirituale dell’insegnante o del praticante italiano viene rafforzata attraverso una forma di whitening epistemologico: colui che “preserva la purezza del Reiki” diventa l’erede legittimo di un sapere che non gli appartiene storicamente, ma che può essere fatto proprio perché è stato silenziato nella sua differenza. Stuart Hall ha ben descritto questo processo come appropriazione posizionale: un’identità si definisce prendendo posizione all’interno di una griglia culturale già segnata da asimmetrie di potere (Hall: 1996).

In sintesi, l’invocazione della purezza spirituale nel Reiki non è solo un’estetica del rituale: è un atto performativo che istituisce confini razzializzati, epistemologici e affettivi. Confini che separano chi può parlare e chi deve tacere, chi può certificare e chi deve cercare legittimità. E, come ogni confine, anche questo va messo in discussione.

Gli “insegnamenti originali” come costruzione narrativa

Ogni volta che si invoca la formula “insegnamenti originali” — come avviene nella missione dell’Associazione Italiana Reiki — si mobilita una retorica della memoria che pretende di farsi struttura. Ma come ha mostrato Jacques Derrida, ogni origine è sempre différée — differita, spostata, mai pienamente presente. L’“origine” è un effetto retroattivo, costruito da chi cerca di fondare un ordine simbolico, non un punto di partenza intatto (Derrida: 1967). Così, ciò che viene presentato come trasmissione fedele di un contenuto immutabile è, in realtà, una narrazione che mette in scena la fedeltà come valore, ma nasconde la selezione, la riscrittura e la contingenza.

Nel caso del Reiki, gli “insegnamenti originali di Mikao Usui” non costituiscono un corpus chiuso, né un codice normativo definito. Come sappiamo, la documentazione storica è parziale, contraddittoria, dispersa in frammenti che richiedono interpretazione. E proprio qui si apre lo spazio della costruzione: il “Reiki autentico” non è tanto ciò che viene da Usui, quanto ciò che oggi viene fatto valere come suo. La tradizione, allora, non è ciò che si tramanda, ma ciò che si istituisce ogni volta che la si rivendica — ciò che Michel de Certeau chiamerebbe strategie della legittimazione (de Certeau: 1980).

Questa istituzione della tradizione funziona come un archivio selettivo, in cui alcuni elementi vengono esaltati (il reiju, la lingua giapponese, la gestualità “originaria”), mentre altri vengono rimossi o silenziati (le trasformazioni avvenute con Hayashi, Takata, o nei contesti transculturali contemporanei). È una forma di governo della memoria, che opera — per dirla con Michel Foucault — secondo una politica della verità: non è vero ciò che è documentabile, ma ciò che può essere ripetuto, insegnato, istituzionalizzato (Foucault: 1980). L’insegnamento diventa così una pratica di autorità, non solo di trasmissione.

In questa logica, l’originale non è una fonte, ma un punto di condensazione discorsiva, da cui si pretende di trarre legittimità, purezza, autorevolezza. È qui che si attiva quello che Elizabeth Povinelli ha chiamato il potere dell’eventuale: la capacità di alcune narrazioni di imporsi come necessarie, di oscurare l’arbitrarietà della loro selezione attraverso la forza della loro reiterazione (Povinelli: 2011). Gli “insegnamenti originali” non sono altro che questo: un gesto che si legittima mentre parla, una forma di potere che agisce mascherandosi da fedeltà.

Ma forse il problema non è che queste narrazioni esistano, quanto il modo in cui vengono fatte valere come uniche, come esclusive, come normativamente vincolanti. In altre parole, ciò che andrebbe criticato non è il fatto che esistano interpretazioni del Reiki, ma la pretesa che una sola interpretazione possa valere per tutte. È proprio in questa esclusività che si attiva la funzione disciplinante del discorso sull’originalità: esclude le variazioni, patologizza le differenze, produce marginalità.

Per un Reiki situato, relazionale e decoloniale

Uscire dalla retorica dell’autenticità non significa abbandonare la cura del rigore o rinunciare a una relazione profonda con le radici culturali della pratica. Significa, piuttosto, ripensare radicalmente il modo in cui ci rapportiamo alla tradizione. Non come archivio da custodire, ma come campo di possibilità da abitare in modo consapevole, etico e situato. Come ha suggerito Gayatri Chakravorty Spivak, disimparare i privilegi è un gesto fondamentale per poter entrare in relazione con l’altro senza assimilazione, senza riduzione, senza conquista (Spivak: 1990). Questo gesto riguarda anche noi, praticanti occidentali del Reiki: ci chiede di mettere in discussione non ciò che facciamo, ma il modo in cui lo giustifichiamo, lo insegniamo, lo rappresentiamo.

Ripensare il Reiki oggi significa prenderlo sul serio come pratica incarnata e discorsiva, come campo relazionale attraversato da differenze, posizionamenti, discontinuità. Come ogni atto performativo — nel senso dato da Judith Butler — anche l’insegnamento del Reiki è un gesto che ripete, ma ogni ripetizione è già una variazione, e ogni variazione è una responsabilità (Butler: 1993). Non si tratta quindi di scegliere tra autenticità e libertà, ma di abitare l’instabilità con consapevolezza, di trasformare il Reiki non in un sistema chiuso ma in uno spazio di alleanze parziali, di aperture, di ascolti.

In questa direzione, può esserci utile la figura della mestiza di Gloria Anzaldúa: un’identità ibrida che rifiuta la logica binaria della fedeltà o del tradimento, e che vive invece nelle soglie, negli attraversamenti, nella contaminazione vissuta come potenziale trasformativo (Anzaldúa: 1987). Il Reiki, se vissuto come pratica critica, può diventare questo: uno spazio di confine abitabile, dove le genealogie non sono scudi ma ponti, dove le differenze non sono ostacoli ma linguaggi da imparare.

Questo comporta anche un riposizionamento epistemico. Donna Haraway ci ha ricordato che ogni sapere è situato, e che la pretesa di neutralità o universalità è sempre un atto di cancellazione (Haraway: 1988). Decolonizzare il Reiki, allora, non significa trovare “la vera forma giapponese”, ma riconoscere e rendere trasparente da dove parliamo, per chi parliamo, e a quale costo simbolico produciamo le nostre verità. Come suggerisce María Lugones, la decolonialità non è un gesto teorico, ma una pratica di relazione: rompere i codici dominanti non per creare nuovi dogmi, ma per restituire la possibilità di incontrarsi senza assimilare, di apprendere senza appropriarsi, di praticare senza cancellare (Lugones: 2010).

È in questa prospettiva che il Reiki può ancora dirsi autentico: non perché aderisce a un’origine fissa, ma perché si radica nella capacità di stare in relazione con ciò che eccede, disorienta, interpella. Un Reiki situato, critico e relazionale è forse più fragile, certo. Ma proprio in questa fragilità si apre uno spazio politico ed etico capace di restituire dignità, non solo alla pratica, ma anche ai mondi che attraversa.

Bibliografia

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Stoler, A.L. (2002) Carnal Knowledge and Imperial Power: Race and the Intimate in Colonial Rule. Berkeley: University of California Press.

L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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