Reiki e Chakra: un approfondimento antropologico

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

reiki e chakra

Quando si parla di chakra, nella maggior parte dei corsi Reiki oggi diffusi in Italia, ci si riferisce a una struttura concettuale che viene assunta come antica, orientale e, per questo, automaticamente autorevole. Sette centri energetici allineati lungo la colonna vertebrale, ciascuno associato a un colore, a un’emozione, a un organo. Questa visione dei chakra sembra talmente familiare da sembrare naturale. Eppure, si tratta del prodotto di una precisa genealogia, situata e marcata culturalmente.

La sistematizzazione dei sette chakra che oggi conosciamo non nasce nella medicina o nella filosofia indiana, ma viene formulata nel 1927 dal teosofo inglese Charles W. Leadbeater, all’interno di un’epistemologia esoterica fortemente eurocentrica. In altre parole, ciò che viene spesso presentato come “sapere antico orientale” è, in realtà, il frutto di una codifica prodotta in Occidente per rispondere ai bisogni spirituali dell’Occidente stesso. È questo ciò che Aníbal Quijano ha definito “colonialità del sapere”: un dispositivo attraverso cui l’Occidente ha storicamente selezionato, semplificato, ricategorizzato e gerarchizzato i saperi non occidentali, spacciando questa operazione per sapere neutrale e universale (Quijano: 2000).

Il chakra, così come lo si trova nei manuali contemporanei di Reiki, è quindi il risultato di un processo epistemico estrattivo: il pensiero simbolico e medico delle tradizioni yogiche viene decontestualizzato, privato delle sue radici cosmologiche e filosofiche, e reinserito in un quadro spirituale post-cristiano occidentale che cerca nell’Oriente un altrove salvifico. È questa una forma di espropriazione semantica che cancella la pluralità delle tradizioni indiane, restituendo un’immagine orientalizzata, docile, accessibile e “utile” del sapere asiatico.

Denunciare il white spiritual supremacy nel Reiki occidentale

Nel panorama del Reiki occidentale, l’accoppiamento tra Reiki e chakra è divenuto non solo dominante, ma spesso considerato imprescindibile. Questo binomio, tuttavia, non è neutro: si configura come il prodotto di un’appropriazione culturale che ha trasformato pratiche situate in altri contesti storici e filosofici in elementi di una spiritualità bianca, estetizzata e universalizzata. In altre parole, si è trattato di un processo di sbiancamento spirituale: una forma di potere simbolico attraverso cui il soggetto bianco si appropria di saperi esotizzati, li depoliticizza e li rilegge secondo grammatiche terapeutiche occidentali.

Come hanno evidenziato Carrette e King, il mercato della spiritualità contemporanea si nutre di pratiche orientali decontestualizzate, trasformandole in capitale culturale per soggetti occidentali alla ricerca di autenticità, elevazione, guarigione (Carrette and King: 2005). Questo processo non è solo commerciale: è profondamente ideologico. La spiritualità viene trasformata in consumo, il simbolo in tecnica, la relazione con l’altro in prestazione funzionale. Così, i chakra diventano “blocchi energetici” da sbloccare, centri da armonizzare attraverso metodi standardizzati, spesso presentati come “naturali” o “universali”, ma in realtà fondati su logiche neoliberali e produttiviste.

Nel Reiki occidentale, la centralità assegnata ai chakra si inserisce dunque in un dispositivo più ampio di spiritualizzazione bianca, in cui il corpo viene reso trasparente, leggibile, trasformabile, e in cui la sofferenza viene interpretata come squilibrio personale da correggere individualmente. È qui che la spiritualità orientale viene silenziata nelle sue dimensioni relazionali, politiche e cosmologiche, e viene riformulata secondo un paradigma psicologizzante e terapeutico che rispecchia valori e aspettative dell’individuo moderno occidentale.

Auto-orientalismo e la costruzione di un Reiki ibrido, ma eterodiretto

Il sincretismo tra Reiki e chakra, spesso celebrato come frutto di un incontro armonioso tra culture, rivela invece una dinamica profondamente asimmetrica. Questa ibridazione non nasce da un dialogo tra pari, ma da un processo di adattamento unilaterale alle aspettative dell’Occidente. Il Reiki, come altre pratiche asiatiche contemporanee, è stato reinterpretato e riconfigurato per corrispondere all’immaginario esotico e spiritualizzante che l’Occidente ha costruito sull’Oriente.

Qui si colloca il concetto di auto-orientalismo, ovvero il meccanismo attraverso cui un soggetto non occidentale adotta e rielabora volontariamente i tratti dell’immagine orientalista proiettata su di lui, spesso per rendersi accettabile, riconoscibile, desiderabile (Miyake: 2013). In altre parole, è l’Oriente che interiorizza lo sguardo occidentale e lo restituisce sotto forma di autenticità performata.

Un esempio emblematico è rappresentato dalla diffusione del Reiki in India a partire dal 1989, grazie alla psicologa statunitense Paula Horan. Fu proprio in quel contesto che il Reiki fu sistematicamente accostato ai chakra, secondo una visione teosofica e new age completamente estranea al contesto giapponese da cui il Reiki proviene. Questa nuova forma “indo-occidentale” del Reiki, ibridata e adattata, fu poi reimportata in Europa e negli Stati Uniti come espressione autentica dell’antica saggezza orientale. In questo paradosso — un sapere giapponese reinterpretato in chiave indiana per soddisfare il desiderio occidentale di esotismo — si coglie la natura profondamente eterodiretta del Reiki contemporaneo.

L’immagine di un Reiki che “lavora sui chakra” non è dunque un dato di fatto, né una naturale evoluzione: è una costruzione culturale il cui successo dipende dalla capacità di soddisfare l’aspettativa dell’Occidente nei confronti di un Oriente spirituale, morbido, mistico e terapeutico. Un Oriente disegnato per piacere.

Contro l’universalismo: riconoscere i saperi situati

Una delle narrazioni più pervasive nel campo della spiritualità contemporanea è quella dell’universalismo: l’idea che certi concetti, come l’energia, il benessere, i chakra, siano accessibili a tutti in ogni epoca e cultura, al di là dei contesti storici e delle differenze epistemiche. Questa visione, apparentemente inclusiva, nasconde in realtà un’operazione egemonica: la cancellazione delle radici culturali, politiche e simboliche dei saperi non occidentali in nome di un “comune” spirituale che rispecchia, ancora una volta, i valori dell’Occidente bianco e globale.

Come hanno sottolineato studiosi come Walter Mignolo e Donna Haraway, nessun sapere è neutrale: ogni pratica, ogni concetto, ogni narrazione nasce in un contesto specifico, è frutto di relazioni di potere, di storie coloniali, di economie simboliche. Parafrasando Haraway, ciò che conta non è affermare verità universali, ma riconoscere la parzialità dei punti di vista, la situatezza dei saperi, la responsabilità che ogni atto conoscitivo comporta (Haraway: 1988; Mignolo: 2009).

Parlare di chakra all’interno del Reiki, dunque, non può essere un gesto neutro o puramente tecnico. È un atto di posizione. Significa scegliere una certa genealogia, un certo immaginario, un certo tipo di rapporto con l’altro. In altre parole, significa assumersi la responsabilità di ciò che si trasmette, di come lo si trasmette, e di quale mondo si contribuisce a costruire attraverso quella trasmissione.

Riconoscere che ogni sapere è situato non significa relativizzare tutto, ma accettare la complessità. Significa rinunciare alla comoda illusione dell’universalità per accogliere il compito, più faticoso ma più onesto, di costruire pratiche consapevoli, contestualizzate, eticamente orientate.

Per un Reiki etico e decoloniale

Ripensare il legame tra Reiki e chakra non significa negare il valore dell’esperienza, né invalidare ciò che molti praticanti sentono autenticamente nel loro corpo. Al contrario, significa restituire profondità e responsabilità a ciò che facciamo quando insegniamo, quando tocchiamo, quando trasmettiamo. Significa uscire dalla ripetizione automatica di formule e strutture e scegliere di interrogare, con delicatezza e rigore, le radici del nostro agire.

Un Reiki etico non si costruisce aggiungendo nuovi contenuti, ma problematizzando le premesse. Chiedendosi, ad esempio: cosa significa dire “tradizione giapponese”? Cosa portiamo con noi quando parliamo di energia? Chi ha definito cosa sono i chakra? E con quale autorità?

Un approccio decoloniale al Reiki non ha come obiettivo la purificazione del “vero” Reiki dalle contaminazioni. Al contrario, riconosce che ogni pratica è già contaminata, che ogni sapere è meticcio. Ma proprio per questo, rivendica la necessità di scelte consapevoli, di un’etica della trasmissione, di una responsabilità relazionale verso le culture da cui attingiamo. Decolonizzare il Reiki significa smettere di trattare l’Oriente come un serbatoio simbolico da cui attingere senso, e iniziare a costruire relazioni basate sulla reciprocità, sul riconoscimento, sull’ascolto.

È un percorso, non un punto di arrivo. È un gesto politico e insieme intimo. E forse, proprio in questa attenzione riflessiva e nella rinuncia alle scorciatoie spirituali, si apre lo spazio per un Reiki che non ha bisogno di promettere universalità, perché sa restare fedele alla complessità del mondo.

Bibliografia

Carrette, J.R. and King, R. (2005) Selling Spirituality: The Silent Takeover of Religion. London and New York: Routledge. Disponibile su: https://www.routledge.com/Selling-Spirituality-The-Silent-Takeover-of-Religion/Carrette-King/p/book/9780415302098 (consultato il 11 maggio 2025).

Haraway, D. (1988) ‘Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective’, Feminist Studies, 14(3), pp. 575–599. Disponibile su: https://www.jstor.org/stable/3178066 (consultato il 11 maggio 2025).

Leadbeater, C.W. (1927) The Chakras. Adyar: Theosophical Publishing House. Edizione digitale disponibile su Internet Archive: https://archive.org/details/x-chakras (consultato il 11 maggio 2025).

Mignolo, W.D. (2009) ‘Epistemic Disobedience, Independent Thought and Decolonial Freedom’, Theory, Culture & Society, 26(7–8), pp. 159–181. Disponibile su: https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/0263276409349275 (consultato il 11 maggio 2025).

Mignolo, W.D. (2011) The Darker Side of Western Modernity: Global Futures, Decolonial Options. Durham: Duke University Press. Disponibile su: https://www.dukeupress.edu/the-darker-side-of-western-modernity (consultato il 11 maggio 2025).

Miyake, T. (2013) ‘Italian Transnational Spaces in Japan: Doing Racialised, Gendered and Sexualised Occidentalism’, Cultural Studies Review, 19(2), pp. 139–161. Disponibile su Academia.edu: https://www.academia.edu/3716429/ (consultato il 11 maggio 2025).

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Quijano, A. (2000) ‘Coloniality of Power, Eurocentrism, and Latin America’, Nepantla: Views from South, 1(3), pp. 533–580. Disponibile su: https://read.dukeupress.edu/books/book/3347/chapter/8902641/Coloniality-of-Power-Eurocentrism-and-Latin (consultato il 11 maggio 2025).

Spivak, G.C. (1994) ‘Can the Subaltern Speak?’, in Williams, P. and Chrisman, L. (eds.) Colonial Discourse and Post-Colonial Theory: A Reader. New York: Columbia University Press, pp. 66–111. Disponibile su: https://www.taylorfrancis.com/chapters/edit/10.4324/9781315656496-6/subaltern-speak-gayatri-chakravorty-spivak (consultato il 11 maggio 2025).

Spivak, G.C. (1993) Outside in the Teaching Machine. New York: Routledge. Disponibile su: https://www.routledge.com/Outside-in-the-Teaching-Machine/Spivak/p/book/9780415964821 (consultato il 11 maggio 2025).

L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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