Decolonizzare il Reiki: insegnare con consapevolezza, praticare con responsabilità

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

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Negli ultimi decenni, il Reiki ha conosciuto una diffusione straordinaria in tutto il mondo, affermandosi come una delle pratiche più riconosciute nel panorama delle cosiddette “discipline energetiche”. Tuttavia, ciò che spesso passa sotto silenzio è il modo in cui tale diffusione è avvenuta: attraverso una narrazione che ha profondamente trasformato il contesto originario giapponese, filtrandolo attraverso categorie e immaginari propri dell’Occidente. Il Reiki che oggi molti conoscono è il risultato di una complessa traduzione culturale, che ha operato non soltanto a livello linguistico o simbolico, ma anche sul piano delle visioni del corpo, della salute e della spiritualità.

In altre parole, il Reiki è diventato – per una parte significativa del mondo occidentale – il simbolo di un Oriente percepito come misterioso, arcaico, sapienziale e immutabile. Ma questa immagine non è neutra: affonda le sue radici in una lunga storia di rappresentazioni orientaliste che hanno accompagnato l’espansione coloniale, la scoperta dell’alterità e il bisogno occidentale di reinventare sé stesso attraverso l’“altro” . Il “Giappone spirituale” a cui molte scuole di Reiki fanno riferimento non è tanto il Giappone reale, storico, stratificato, quanto piuttosto un Giappone immaginato, costruito per rispondere a desideri e bisogni dell’Occidente moderno in crisi.

Da un’altra angolazione, la fascinazione per l’autenticità e la purezza culturale – temi ricorrenti nei discorsi sul Reiki – va letta come parte di un dispositivo culturale più ampio: quello che Walter Mignolo ha definito “colonialità del sapere”, ovvero la tendenza delle epistemologie occidentali a universalizzarsi cancellando storie, fratture e ambiguità. In quest’ottica, il Reiki si struttura come uno spazio ambivalente: al tempo stesso portatore di possibilità trasformative, ma anche vulnerabile a narrazioni semplificanti e talvolta violente.

In questo articolo desidero riflettere – da praticante, insegnante e ricercatore – su questi processi. Problematicizzare le rappresentazioni di cui siamo portatori, interrogare le nostre pratiche e assumerci la responsabilità culturale del nostro posizionamento non significa negare il valore del Reiki, ma prenderlo sul serio. Solo così è possibile immaginare una pratica consapevole, capace di liberarsi dalle trappole dell’esotismo e aprirsi a una relazione autentica con la sua complessa genealogia.

Orientalismo e razzializzazione del Giappone spirituale

Nel discorso globale sul Reiki, il Giappone non viene soltanto evocato come luogo d’origine, ma viene attivamente costruito come spazio simbolico di autenticità, purezza e spiritualità. Questo processo si inscrive all’interno di ciò che Edward Said ha definito «orientalismo», ovvero un sistema di rappresentazioni attraverso cui l’Occidente si è storicamente costituito immaginando e classificando l’Oriente come un “altro” radicale: esotico, irrazionale, enigmatico, ma anche profondamente affascinante (Said, 1978). Lungi dall’essere una semplice cornice estetica o folkloristica, queste immagini orientalistico-spirituali hanno conseguenze profonde nella pratica e nell’insegnamento del Reiki contemporaneo.

Basta osservare molti dei materiali visivi e narrativi utilizzati nella divulgazione del Reiki: mani sospese senza contatto, simboli giapponesi fluttuanti nello spazio, figure vestite di bianco, riferimenti a concetti pan-indiani come i chakra o il karma. In questo immaginario – spesso inconsapevole – il Reiki viene decontestualizzato dalla sua storia moderna giapponese e reinscritto in una geografia simbolica dell’“Oriente eterno”. Un Oriente che non corrisponde a nessun luogo reale, ma che svolge una funzione ideologica: quella di fornire all’Occidente moderno una fonte rigeneratrice, un altrove spirituale da cui attingere autenticità in un’epoca percepita come materialista e disincantata.

Da un’altra prospettiva, questa costruzione simbolica del Giappone come riserva spirituale del mondo implica anche una forma sottile di razzializzazione. Non si tratta di razzismo esplicito, ma di una forma di essenzializzazione “positiva”: il giapponese – e per estensione il maestro orientale – viene descritto come colui che è “naturalmente” portato alla meditazione, al silenzio, alla profondità interiore. Queste attribuzioni, per quanto apparentemente benevole, riducono la complessità storica e culturale di un’intera società a tratti fissi, immutabili, costruiti dall’esterno. È in questo senso che l’orientalismo si intreccia con dinamiche postcoloniali, anche all’interno di pratiche spirituali apparentemente inoffensive.

Lungi dall’essere un residuo del passato coloniale, l’orientalismo agisce oggi come una forza viva, che plasma l’immaginazione spirituale contemporanea e la stessa percezione del Reiki. Riconoscerlo non significa rifiutare l’incontro con l’altro, ma al contrario renderlo più consapevole, più reciproco, più giusto.

Colonialismo culturale e spiritualità “appropriata”

Il successo del Reiki in Occidente non può essere compreso senza considerare il contesto più ampio del colonialismo culturale, ovvero quei processi attraverso cui l’Occidente ha storicamente assimilato, trasformato e talvolta svuotato di significato pratiche, saperi e simboli provenienti da altri mondi culturali. In questo quadro, il Reiki non si è semplicemente “diffuso”, ma è stato tradotto secondo coordinate che rispondono ai bisogni, ai gusti e alle aspettative spirituali occidentali. E in questa traduzione, qualcosa si è inevitabilmente perso: la storicità, la politicità e la contingenza del Reiki come pratica nata nel Giappone moderno, in dialogo con il buddhismo, il militarismo, la medicina popolare e la modernizzazione Meiji.

Molti racconti sul Reiki, specialmente quelli veicolati dai manuali occidentali o dalle scuole New Age, tendono a eludere questa complessità, offrendo una narrazione lineare e de-storicizzata. Il Reiki viene presentato come “antichissima saggezza orientale”, come “trasmissione diretta dell’energia universale”, come “sistema di guarigione naturale” separato dalle sue origini contestuali. Questo tipo di rappresentazione, lungi dall’essere neutra, opera una vera e propria appropriazione culturale: preleva elementi simbolici da un contesto culturale subordinato e li reinserisce in un sistema discorsivo in cui l’Occidente resta soggetto centrale.

Questa dinamica si inserisce all’interno di quella che Walter Mignolo ha definito la “colonialità del sapere”, cioè la tendenza delle epistemi occidentali a presentarsi come universali, neutralizzando la pluralità dei saperi locali. Il Reiki, nella sua versione “globalizzata”, è spesso modellato su queste coordinate: reso compatibile con il lessico terapeutico occidentale, depurato di ogni riferimento religioso o rituale, ridotto a tecnica esportabile. Una spiritualità “appropriata”, in tutti i sensi del termine: culturalmente appropriata secondo gli standard occidentali, e contemporaneamente oggetto di appropriazione (Mignolo, 2007).

In questo modo, il Reiki rischia di diventare uno strumento attraverso cui l’Occidente continua a esercitare un potere epistemico e simbolico sulle altre culture: mantenendo la propria centralità anche mentre celebra l’“altro”. È qui che si gioca la sfida più radicale: quella di costruire una relazione con il Reiki che non sia fondata sulla conquista o sull’imitazione, ma sull’ascolto, sulla responsabilità, sulla decostruzione critica degli immaginari coloniali.

Il mito dell’“autenticità” e la sua funzione

Nel discorso spirituale occidentale sul Reiki, l’“autenticità” rappresenta una delle parole chiave più ricorrenti. Si parla di Reiki “puro”, di insegnamenti “originari”, di metodi “fedeli alla tradizione”, come se esistesse una versione primigenia e incontaminata da riscoprire, da custodire o da proteggere. Ma dietro questo lessico si cela un’operazione culturale complessa, che merita di essere problematizzata. L’idea stessa che esista un’unica “fonte autentica” – una matrice originaria che dovrebbe essere recuperata per distinguersi da tutto ciò che è “contaminato” – è frutto di una visione essenzialista della cultura. Una visione che, paradossalmente, è più occidentale che giapponese.

Il concetto di autenticità, infatti, non è innocente. Si struttura come un dispositivo di legittimazione: stabilisce cosa è vero e cosa è falso, chi ha il diritto di insegnare e chi no, quale versione del Reiki è considerata “giusta” e quale invece viene squalificata come moderna, alterata, ibrida. In questo modo, l’autenticità diventa una forma di capitale simbolico, un principio di distinzione sociale e spirituale (Bourdieu, 1979), utile per posizionarsi nel mercato globale della spiritualità. Non si tratta di una semplice questione terminologica: l’uso strategico dell’autenticità alimenta gerarchie, definisce genealogie legittime e marginalizza versioni alternative o localmente adattate della pratica.

Da un’altra angolazione, l’ossessione per l’autenticità rischia di occultare la natura storicamente situata e culturalmente dinamica del Reiki stesso. Come ha mostrato la storiografia culturale, molte tradizioni percepite come “antiche” sono in realtà costruzioni moderne: selezioni a posteriori che rispondono a esigenze identitarie o politiche specifiche. In questo senso, l’autenticità nel Reiki può essere letta come una tradizione inventata, cioè un insieme di pratiche e discorsi che pretendono di avere un’origine immutabile, ma che sono in realtà il prodotto di processi storici recenti (Hobsbawm and Ranger, 1983).

Infine, è importante chiedersi: autentico per chi? Autentico rispetto a quale punto di vista? La pretesa di autenticità presuppone uno sguardo esterno che si arroga il diritto di stabilire cosa appartiene veramente a una tradizione e cosa invece ne è una deriva. Ma ogni tradizione è frutto di una selezione, di una narrazione, di una costruzione. Il mito dell’autenticità, lungi dall’essere una garanzia di fedeltà, funziona spesso come una forma sottile di autorità e di potere.

Decolonizzare il Reiki: una proposta

Parlare di “decolonizzare il Reiki” può apparire, a prima vista, una provocazione. In realtà, è un invito a riconsiderare criticamente le modalità con cui questa pratica viene insegnata, vissuta e trasmessa oggi, soprattutto in contesti occidentali. Decolonizzare non significa “ripulire” il Reiki dalle influenze moderne o ritornare a un’ipotetica purezza originaria. Al contrario, significa prendere atto delle condizioni storiche e culturali che ne hanno plasmato la forma contemporanea, e assumersi la responsabilità di interrogare i processi di potere, traduzione, appropriazione e cancellazione che lo attraversano.

La decolonizzazione, in questo senso, non è un ritorno ma una problematizzazione: un movimento che ci invita a guardare con occhi nuovi la genealogia della pratica, riconoscendo le diseguaglianze implicite nei nostri saperi e nei nostri immaginari. È un lavoro critico che passa attraverso il disinnesco delle narrazioni universaliste, la messa in discussione delle categorie spirituali importate senza contesto (come “chakra”, “karma”, “energia cosmica”), e la consapevolezza che ogni pratica è situata, attraversata da conflitti, e carica di significati politici.

Decolonizzare il Reiki significa anche restituire voce e complessità alla storia giapponese del Reiki, troppo spesso ridotta a pochi aneddoti mitizzati. Significa, ad esempio, riconoscere che Usui Mikao visse nel cuore di un Giappone attraversato da dinamiche di modernizzazione, nazionalismo, ibridazione religiosa, militarizzazione e diffusione di nuove terapie popolari. Significa ascoltare anche le traiettorie dimenticate, le genealogie scomode, i maestri non canonizzati. E interrogarsi su chi, oggi, ha il potere di stabilire cosa è “vero Reiki” e cosa no.

Ma soprattutto, decolonizzare significa fare spazio. Spazio all’ascolto dell’altro, spazio alla pluralità delle pratiche, spazio all’incertezza, al dubbio, alla responsabilità. Non si tratta di abbandonare il Reiki, né di privarlo del suo potenziale trasformativo. Si tratta di disinnescare le logiche di appropriazione e di supremazia che ne minano le fondamenta. E di costruire, pazientemente, una pratica più giusta, più consapevole, più umana.

Il mio approccio: una pratica critica e situata

Nel mio percorso di praticante, insegnante e ricercatore, mi è stato impossibile ignorare la tensione tra ciò che il Reiki promette e ciò che, troppo spesso, viene replicato nel suo nome. Quando ho fondato My Reiki, nel 2013, ho sentito l’urgenza di creare uno spazio formativo che non si limitasse a trasmettere tecniche, ma che si facesse carico delle implicazioni culturali, storiche ed etiche della pratica. Un luogo in cui il Reiki potesse essere restituito alla sua complessità, liberandolo dagli stereotipi e dalle semplificazioni orientaliste che lo hanno trasformato in un oggetto esotico da consumare.

Il mio approccio si fonda sull’ascolto del corpo, sul rispetto del contesto, sull’interrogazione delle genealogie. My Reiki non si presenta come “la via autentica”, né come “il vero Reiki giapponese”, perché questi slogan ricalcano esattamente le logiche che intendo mettere in discussione. Piuttosto, la nostra formazione si struttura come un laboratorio riflessivo in cui i partecipanti sono invitati a prendere consapevolezza del proprio posizionamento, delle immagini che abitano, dei gesti che ripetono. La cura, per noi, non è solo una tecnica, ma una relazione situata che interroga anche il modo in cui conosciamo, insegniamo, trasmettiamo.

Nel corso degli anni, ho cercato di tenere insieme due esigenze apparentemente opposte: da una parte, il rigore storico, filologico e critico necessario per decostruire i miti e le narrazioni rassicuranti; dall’altra, la dimensione esperienziale e incarnata del Reiki, che non può essere ridotta a discorso. Il Reiki che proponiamo a My Reiki è, in questo senso, un percorso: una pratica della presenza, ma anche della responsabilità. Un cammino che non si accontenta di “trasmettere” energia, ma che vuole pensare e sentire ciò che trasmette, come lo trasmette, e a chi.

Decolonizzare il Reiki, per me, è anche questo: abbandonare la ricerca ossessiva di legittimazioni esteriori per abitare, finalmente, la vulnerabilità del proprio percorso. Mettersi in discussione non indebolisce la pratica: la rende più viva, più relazionale, più giusta. E forse più vicina, anche, allo spirito con cui Usui Sensei ha iniziato il suo.

Oltre l’Oriente immaginario: un invito alla pratica consapevole

Il Reiki non ha bisogno di essere purificato, né difeso da presunte contaminazioni. Ha bisogno, piuttosto, di essere abitato con consapevolezza. Di essere restituito alla sua complessità storica e vissuto nel presente con apertura, lucidità e senso critico. In altre parole, ha bisogno di praticanti e insegnanti che non cerchino scorciatoie nel mito dell’autenticità, ma si assumano la responsabilità del proprio sguardo, del proprio gesto, del proprio insegnamento.

Il mio invito non è a seguire un nuovo modello, né a sostituire un’autorità con un’altra. È piuttosto un appello a riconoscere che ogni atto di cura, ogni trasmissione di sapere, ogni trattamento, porta con sé delle scelte: culturali, simboliche, etiche. E che il Reiki può diventare uno spazio in cui queste scelte vengono pensate, condivise, trasformate.

Chi si avvicina a My Reiki è accolto in questo spirito. Non con la promessa di possedere una verità, ma con la possibilità di esplorare – con rigore e con delicatezza – cosa significhi praticare il Reiki oggi, in un mondo attraversato da diseguaglianze, memorie rimosse, desideri di guarigione e bisogno di senso. È un lavoro che chiede tempo, attenzione, disponibilità all’ascolto. Ma proprio per questo è anche un lavoro profondamente politico, nel senso più ampio e necessario del termine: un modo per prendere posizione nel mondo attraverso la cura, e non malgrado essa.

Decostruire gli immaginari orientalisti, problematizzare le eredità coloniali, interrogarci sul nostro ruolo nella trasmissione di una pratica: tutto questo non è un esercizio astratto. È una forma concreta di rispetto. È un modo per onorare ciò che il Reiki può diventare, quando smette di essere un riflesso dell’Occidente che guarda sé stesso nell’altro, e inizia a essere un luogo vivo di relazione, reciprocità e trasformazione.

Bibliografia

Bourdieu, P. (1979). La distinction. Critique sociale du jugement. Paris: Les Éditions de Minuit. Trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto. Bologna: Il Mulino, 2001.

Hobsbawm, E. and Ranger, T. (eds.) (1983). The Invention of Tradition. Cambridge: Cambridge University Press.

Mignolo, W.D. (2007). Delinking: The rhetoric of modernity, the logic of coloniality and the grammar of de-coloniality. «Cultural Studies», 21(2–3), pp. 449–514.

Said, E.W. (1978). Orientalism. New York: Pantheon Books.

L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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