Abstract – Reiki, complottismo e responsabilità discorsiva
Il presente articolo analizza criticamente la diffusione di contenuti complottisti nel contesto del Reiki in Italia, a partire da un caso emblematico: la pubblicazione di un post virale contro l’Agenda 2030 da parte di un insegnante Reiki. Tale episodio solleva interrogativi rilevanti sul ruolo pubblico degli insegnanti spirituali, sulla responsabilità etica del linguaggio e sul rischio che la pratica Reiki venga strumentalizzata come veicolo ideologico, perdendo la propria funzione trasformativa.
Attraverso un’analisi antropologica e discorsiva, l’articolo mette in luce le dinamiche di semplificazione, paura e fidelizzazione affettiva che caratterizzano molte narrazioni complottiste in ambito spirituale. Viene proposto un ripensamento del Reiki come pratica situata, relazionale e non identitaria, capace di sostenere una spiritualità responsabile nel tempo della complessità. Parlare diventa qui un atto di cura: una forma di vigilanza sulle parole che usiamo e sulle visioni che alimentiamo, per custodire il potenziale etico e relazionale del Reiki nella sua dimensione più sobria, silenziosa e radicale.
Introduzione: una deriva che ci riguarda
Nei giorni scorsi è circolato sui social un post virale intitolato Agenda 2030, diffuso da Gianluigi Costa, insegnante di Reiki noto in Italia per la sua attività divulgativa. Il contenuto del post – presentato graficamente in modo secco e provocatorio – consiste in una lista di dieci presunti obiettivi nascosti dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, elencati in modo perentorio: sottomissione all’autorità, eliminazione del dissenso, controllo dei cittadini, distruzione del denaro fisico, imposizione di governi tecnocratici, riduzione della popolazione, e infine l’eliminazione della libertà personale, in vista di un “nuovo ordine mondiale”. Il tono, allarmistico e fortemente ideologizzato, ricalca le narrazioni classiche dei movimenti complottisti che hanno preso piede soprattutto durante e dopo la pandemia, trovando nuova linfa nella sfiducia verso le istituzioni, nella crisi ambientale ed economica, e nel bisogno crescente di appartenenza e identità.
Che una simile visione venga proposta non da un attivista politico, né da un opinionista estremista, ma da un insegnante di Reiki, solleva interrogativi profondi su ciò che oggi significa insegnare e trasmettere questa pratica. Se è legittimo – e persino salutare – porre domande sul presente, non lo è sostituire la complessità dei processi storici e sociali con teorie preconfezionate che riducono ogni trasformazione a un piano occulto, ogni istituzione a una minaccia, ogni proposta globale a una strategia di dominio.
Non si tratta qui di esprimere un disaccordo personale, né di correggere una semplice imprecisione. Ciò che è in gioco è il senso stesso della spiritualità che si veicola attraverso il Reiki: una spiritualità che può essere luogo di emancipazione e ascolto, oppure strumento di irrigidimento e ideologizzazione. Quando chi insegna Reiki – una pratica che nasce per sostenere la salute, la consapevolezza e la relazione – diventa canale per messaggi che seminano sfiducia, paura e ostilità, è necessario interrogarsi su ciò che sta accadendo.
La deriva complottista non è una questione laterale o estranea al mondo del Reiki. È una tendenza crescente che attraversa il campo della spiritualità contemporanea, spesso in forme mascherate, talvolta travestita da “risveglio” o “verità alternativa”. Il rischio, quando questo accade, è che il Reiki venga trasformato in un contenitore vuoto, disponibile a essere riempito con qualsiasi discorso, anche se profondamente contrario alla sua natura. Un contenitore che può essere usato per rafforzare dinamiche settarie, per fidelizzare attraverso la paura, per costruire appartenenze escludenti invece di promuovere una coscienza plurale e relazionale.
È per questo che oggi, più che mai, è necessario prendere parola. Non per imporre una verità, ma per restituire al Reiki la sua integrità come spazio di pratica, e al contempo per difendere una spiritualità che non si lasci ridurre a ideologia. Parlare è un atto di cura. E in tempi in cui le parole vengono usate per costruire muri, praticare la cura significa anche vigilare su quali discorsi scegliamo di abbracciare e su quali visioni scegliamo di trasmettere.
Il contenuto del post: una narrativa complottista travestita da risveglio
Il post condiviso da Gianluigi Costa si presenta con la veste della rivelazione: l’Agenda 2030 non sarebbe ciò che dichiara di essere – un programma globale per lo sviluppo sostenibile – bensì un progetto segreto di controllo sociale e distruzione sistematica della libertà umana. Le dieci voci che compongono il post non sono semplici provocazioni, ma veri e propri enunciati ideologici: si parla di «sottomissione all’autorità», «punizione del dissenso», «controllo assoluto dei cittadini», «eliminazione del denaro fisico», «riduzione della popolazione», fino a evocare il caos come strumento deliberato per imporre un nuovo ordine mondiale.
Questo schema retorico rientra pienamente nella struttura del pensiero complottista contemporaneo, il cui meccanismo fondamentale è la proiezione paranoide: ogni forma di governance globale viene risignificata come inganno, ogni mediazione come manipolazione, ogni cambiamento come minaccia. La realtà viene così ridotta a un’unica trama interpretativa – semplice, totalizzante, seducente – in cui tutto ciò che accade è già spiegato da una verità occultata che solo pochi, i “risvegliati”, riescono a vedere. Il linguaggio stesso del post tradisce questa volontà di semplificazione estrema: le frasi sono brevi, apodittiche, scritte in rosso, come comandi o sentenze. Non c’è spazio per il dubbio, per l’argomentazione, per il contesto. Si tratta di un discorso che non invita a pensare, ma a prendere posizione.
L’elemento più preoccupante di questa operazione è che essa si ammanta di spiritualità. Si insinua l’idea che diffidare delle istituzioni, dei media e della scienza non sia solo legittimo, ma sia addirittura un segno di evoluzione interiore. Si propone, in altre parole, una spiritualità fondata sulla negazione: negazione della complessità, del dialogo, dell’interdipendenza tra i popoli e le culture. La figura dell’“essere risvegliato” viene così trasformata in quella di chi si oppone a tutto, rifiutando ogni narrazione che non confermi le proprie paure. Il Reiki, in questo scenario, viene ridotto a semplice dispositivo identitario: non più una pratica di ascolto e trasformazione, ma un’etichetta che consente di appartenere a un fronte di resistenza contro un mondo visto come irrimediabilmente corrotto.
Eppure, basterebbe leggere i documenti ufficiali dell’Agenda 2030 per comprendere quanto sia falsata la rappresentazione proposta. I 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile – sottoscritti da 193 Paesi membri delle Nazioni Unite – promuovono l’eliminazione della povertà, l’accesso universale all’istruzione, la parità di genere, la tutela dell’ambiente, la giustizia sociale. Si tratta di sfide complesse, certo, e non prive di contraddizioni, ma attribuire loro intenzioni criminali significa rifiutare il confronto con la realtà, preferendo la rassicurazione della paranoia. In questo senso, l’uso distorto dell’Agenda 2030 diventa un caso emblematico di reframing complottista: si prende un contenuto pubblico e si rovescia il suo significato, trasformando il tentativo di costruire un mondo più equo in una minaccia apocalittica.
Cos’è davvero l’Agenda 2030
L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione adottato nel 2015 da 193 Paesi membri delle Nazioni Unite. Si basa su 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) e 169 traguardi concreti da raggiungere entro il 2030, che spaziano dalla lotta alla povertà e alla fame, alla tutela dell’ambiente, alla promozione della pace, della salute e dell’uguaglianza.
È un’agenda universale, non vincolante, fondata su quattro principi chiave: interconnessione, inclusione, giustizia sociale e responsabilità collettiva. Il suo motto è: “Nessuno deve essere lasciato indietro”.
Alcune teorie complottiste hanno stravolto il significato dell’Agenda 2030, interpretandola come uno strumento di controllo globale. In realtà, si tratta di una cornice etica e cooperativa che invita a prendersi cura del mondo, non a dominarlo. Scambiare la cooperazione per oppressione significa, spesso, cedere alla semplificazione ideologica e all’ansia identitaria.
Se non si riconosce la pericolosità di questo tipo di discorso, si rischia di legittimarlo come semplice “opinione alternativa”. Ma non è un’opinione. È una costruzione ideologica che, facendo leva sulla paura e sulla sfiducia, finisce per minare il tessuto stesso del vivere comune. E quando a veicolarla è una figura spirituale, il danno è ancora più profondo: perché ciò che viene compromesso non è solo l’informazione, ma la fiducia nella possibilità che la spiritualità possa essere uno spazio di cura, di dialogo e di responsabilità condivisa.
L’uso del Reiki come veicolo ideologico
Ciò che rende particolarmente delicata la diffusione di contenuti complottisti da parte di figure come Gianluigi Costa non è solo il messaggio in sé, ma la sua collocazione all’interno di una cornice spirituale apparentemente neutra, benevola, e orientata alla guarigione. È qui che si produce lo slittamento più insidioso: quando il Reiki, anziché essere praticato come via di consapevolezza, diventa involontariamente – o forse consapevolmente – veicolo di un’identità ideologica. Il gesto simbolico della cura viene allora sovraccaricato di significati estranei, trasformandosi in strumento per rafforzare visioni del mondo rigide, dogmatiche e impermeabili al confronto.
In altre parole, il Reiki non viene più insegnato come pratica, ma come contenitore: un involucro nel quale far confluire idee personali, credenze politiche, narrative salvifiche o apocalittiche. Questa trasformazione ha un impatto profondo sulla percezione pubblica della disciplina, ma soprattutto sull’esperienza diretta degli allievi, che si trovano immersi in un discorso apparentemente terapeutico, in realtà permeato da valori, paure e opposizioni che nulla hanno a che vedere con il lavoro energetico, la relazione d’aiuto o la responsabilità personale. Il Reiki si carica così di una funzione identitaria: non è più uno strumento, ma un segno di appartenenza, un “noi” contrapposto a un “loro” da cui difendersi.
Questo fenomeno non è isolato né circoscritto: si colloca all’interno di una tendenza più ampia, ben documentata in ambito antropologico e sociologico, in cui le pratiche spirituali contemporanee vengono piegate a fini di costruzione identitaria e mobilitazione emotiva. Si parla, in questi casi, di spiritualità reattiva: un orientamento che, invece di aprire alla complessità del reale, offre risposte semplificate e rassicuranti, alimentando narrazioni dicotomiche. Il paradosso è che tali discorsi si presentano come “alternative” o “risvegliate”, quando in realtà riproducono meccanismi autoritari, verticali e dogmatici, semplicemente traslati in un linguaggio spirituale.
Quando un insegnante Reiki diffonde teorie del complotto, invita implicitamente chi lo segue a fidarsi non della propria esperienza, ma di un quadro precostituito in cui ogni evento ha già un significato, ogni crisi ha già un colpevole, e ogni dubbio è sintomo di inconsapevolezza. Viene così neutralizzata la funzione originaria del Reiki: quella di generare uno spazio di ascolto e di presenza, di sospensione del giudizio e apertura all’incerto. L’allievo non è più accompagnato a sentire, ma a credere. Non è più incoraggiato a stare nell’esperienza, ma a scegliere una parte.
A tutto questo si aggiunge una dinamica che potremmo definire carismatica. La figura del maestro Reiki, in quanto detentore di un sapere non immediatamente verificabile, possiede una forma implicita di autorità. Quando questa viene usata per veicolare ideologie personali, l’effetto è moltiplicato: le parole dell’insegnante non sono recepite come opinioni, ma come verità spirituali. E la pratica Reiki – che dovrebbe favorire l’autonomia e la responsabilità individuale – viene strumentalizzata per costruire consenso, appartenenza, lealtà.
Non si tratta, dunque, di limitare la libertà di pensiero o esprimere giudizi morali. Si tratta di riconoscere che l’insegnamento del Reiki comporta una responsabilità discorsiva: le parole che si scelgono, i contenuti che si condividono, le narrazioni che si alimentano non sono neutri. Hanno un impatto, orientano lo sguardo, formano un clima. E quando il clima che si crea è intriso di paura, sospetto e opposizione al mondo, ciò che si sta trasmettendo non è Reiki: è qualcos’altro, che ne indossa i simboli, ma ne ha svuotato il senso.
Il problema della fidelizzazione tramite paura
Uno degli effetti più rilevanti e al tempo stesso più sottili della diffusione di contenuti complottisti in ambito spirituale è la costruzione di un rapporto di fedeltà non basato sull’esperienza, ma sull’allarme. La paura, una volta installata come frame percettivo dominante, produce infatti una dinamica relazionale potente: chi parla dalla posizione di “colui che ha compreso l’inganno” diventa figura di riferimento, guida, baluardo contro un mondo percepito come ostile. Non è più necessario offrire strumenti o pratiche: è sufficiente mantenere viva la tensione emotiva, rinnovare ciclicamente il senso di pericolo e presentare sé stessi come fonte di verità.
Questo meccanismo, che in altri ambiti è stato ampiamente studiato nei contesti settari e nei gruppi identitari chiusi, si applica sempre più spesso anche a certi circuiti del benessere e della spiritualità contemporanea. La narrazione complottista, infatti, non agisce soltanto a livello cognitivo, ma soprattutto a livello affettivo. Non convince con l’argomentazione, ma fidelizza attraverso l’emozione. In particolare, si fonda su tre vettori fondamentali: la paura (del controllo, della malattia, della perdita), la rabbia (verso l’élite, verso la scienza, verso l’autorità) e l’illusione di una conoscenza superiore che distingue i “svegli” dagli “addormentati”.
All’interno di questa logica, il Reiki viene usato come marchio di elezione. Non è più lo spazio in cui si impara a sentire, a stare, a lasciar fluire: diventa l’attestato invisibile di una presunta superiorità percettiva, di un grado avanzato di “coscienza” che consente di decodificare la realtà meglio degli altri. Il maestro Reiki che diffonde questi contenuti non offre più un percorso formativo, ma un’appartenenza. E chi vi entra, spesso lo fa non per approfondire la pratica, ma per sentirsi dalla parte giusta, in opposizione a un mondo ritenuto perduto.
Il rischio principale di questa dinamica è che si smarrisca del tutto la funzione originaria della pratica. La paura, infatti, non consente apertura. Dove c’è paura, si chiude l’ascolto, si irrigidisce la postura interiore, si cerca protezione più che verità. E laddove il Reiki diventa strumento di rassicurazione identitaria, viene meno la sua dimensione trasformativa. La pratica si impoverisce, si ripete come rituale vuoto, e diventa strumento di conferma di ciò che si è già deciso di credere.
In altre parole, il problema non è solo contenutistico, ma relazionale. È il tipo di rapporto che si costruisce tra chi insegna e chi riceve che viene alterato: da relazione formativa a legame carismatico, da percorso di ascolto a meccanismo di adesione. Il Reiki non è più un mezzo per stare meglio, ma per stare contro. Non è più un’apertura, ma una barriera. Non è più un processo, ma un’identità.
Ecco perché è urgente problematizzare queste derive: perché ciò che viene compromesso non è solo la reputazione pubblica del Reiki, ma il suo potenziale trasformativo più autentico. Perché si genera confusione, si alimenta diffidenza, e soprattutto si tradisce il cuore stesso della pratica, che non ha bisogno di nemici per esistere, ma di presenza, di responsabilità, e di silenziosa disponibilità all’ascolto.
Il Reiki come pratica relazionale e situata
Ogni pratica che coinvolga il corpo, l’energia e la relazione con l’altro comporta inevitabilmente una responsabilità che non si limita al gesto tecnico, ma si estende al quadro di significati entro cui quel gesto prende forma. Il Reiki, in quanto pratica che si esercita nel tocco e nella presenza, è sempre anche un discorso, un posizionamento, un linguaggio incarnato. Non si trasmette soltanto attraverso simboli e protocolli, ma attraverso un ethos, una postura, una visione del mondo. E questa visione del mondo non può essere separata dai modi in cui si parla, si scrive, si costruisce una relazione con chi apprende.
In altre parole, il Reiki non è mai una tecnica astratta. È una pratica situata. Si colloca storicamente, culturalmente e politicamente, anche quando chi la trasmette preferisce pensare che sia “universale” o “neutra”. Ogni scelta – terminologica, metodologica, simbolica – contribuisce a strutturare un’idea implicita di persona, di salute, di società. Per questo, chi insegna Reiki non trasmette solo una sequenza di gesti, ma un orizzonte di senso: ogni parola, ogni silenzio, ogni riferimento extra-pratico (come appunto i post condivisi pubblicamente) entra a far parte del paesaggio formativo che si propone.
In questa prospettiva, è essenziale distinguere tra due modi di intendere l’insegnamento Reiki. Da un lato, vi è un approccio che assume la pratica come relazione in divenire, aperta, processuale, capace di confrontarsi con la complessità e con i limiti. Dall’altro, un approccio che la irrigidisce in una forma identitaria, dogmatica, autoreferenziale, impermeabile al confronto. Nel primo caso, l’insegnamento si radica nell’esperienza e nella condivisione. Nel secondo, si struttura come trasmissione verticale di verità già definite, spesso avvolte in un linguaggio pseudo-spirituale che lascia poco spazio alla riflessione.
Riconoscere questa distinzione non significa disegnare una mappa manichea del “vero Reiki” e del “falso Reiki”, ma problematizzare i dispositivi discorsivi che sostengono le pratiche. Significa, cioè, interrogarsi sul come insegniamo, perché lo facciamo, e che tipo di relazioni generiamo nel farlo. E soprattutto, significa accettare che anche la spiritualità – quando diventa sapere condiviso, comunità di senso, pratica di cura – non è mai separata dal mondo. Al contrario, lo abita.
Da un’altra angolazione, potremmo dire che la qualità di una scuola Reiki non si misura solo dalla correttezza formale dei suoi contenuti, ma dalla responsabilità etica con cui gestisce la propria presenza pubblica. Una responsabilità che include la consapevolezza che ogni parola pronunciata in quanto “insegnante” – anche fuori dalla stanza di pratica – contribuisce a modellare l’immaginario delle persone che ci ascoltano. E che, per questo, il linguaggio deve essere all’altezza della cura che si pretende di trasmettere.
Una spiritualità responsabile: pensare nel tempo della complessità
Laddove la spiritualità si riduce a una funzione identitaria, orientata a rafforzare certezze precostituite, essa perde la sua capacità trasformativa. Ma se pensiamo il Reiki come una via per abitare la complessità, per ascoltarla senza ridurla, per entrare in relazione con ciò che accade senza bisogno di spiegarlo sempre attraverso opposizioni, allora ci troviamo di fronte a una spiritualità che non fugge dal mondo, ma lo attraversa con maggiore lucidità.
Oggi viviamo in un tempo segnato da crisi multiple: ecologica, sanitaria, sociale, informativa. In questo scenario, molte persone si avvicinano al Reiki con il desiderio – a volte confuso, a volte profondissimo – di trovare un senso, di dare una forma vivibile alla propria vulnerabilità, di riattivare risorse interiori per affrontare il presente. È in questo spazio che si apre la responsabilità dell’insegnante: accogliere quella ricerca senza approfittarne. Non fornire risposte assolute, ma facilitare processi. Non vendere identità alternative, ma accompagnare nell’ascolto.
Assumere la complessità significa anche riconoscere i limiti del nostro sguardo, la storicità dei nostri saperi, la parzialità delle nostre pratiche. È un gesto che chiede di abbandonare il linguaggio delle rivelazioni e delle verità nascoste per entrare in una relazione più matura con ciò che non capiamo del tutto, ma che possiamo comunque toccare, attraversare, nominare con cura. In questo senso, il Reiki può diventare una forma concreta di presenza nel mondo, se praticato non come scorciatoia esistenziale, ma come attenzione radicale a ciò che vive dentro e fuori di noi.
Come ricordava Gramsci nei suoi scritti, prendere posizione non significa aderire a una verità dogmatica, ma assumere la responsabilità di stare nel mondo in modo consapevole, rifiutando l’indifferenza e l’apatia come forme di disimpegno. Traslato nel contesto della spiritualità, questo implica non una fuga dalla realtà, ma una presenza vigile e situata, capace di interrogare anche i dispositivi discorsivi che attraversano le pratiche del benessere.
Una spiritualità responsabile è quella che rifiuta il privilegio di non vedere. Che non si serve della paura per attrarre. Che non usa la pratica per fidelizzare, ma per restituire libertà. È quella che non cerca nemici per sentirsi giusta, ma connessioni per restare viva. Ed è, soprattutto, quella che si interroga costantemente sulle parole che usa, sui simboli che attiva, sulle storie che trasmette. Perché ogni discorso che pronunciamo in quanto insegnanti non parla solo di noi, ma anche agli altri. E in quel parlare, si gioca la nostra coerenza più profonda.
Prendersi cura anche del linguaggio
Se praticare Reiki significa, nel senso più profondo, prendersi cura – del corpo, del tempo, della relazione – allora occorre includere in questa cura anche le parole che scegliamo, i significati che attiviamo, le narrazioni che legittimiamo. Il linguaggio non è un accessorio secondario: è parte integrante della trasmissione. Quando un insegnante Reiki pubblica contenuti complottisti, non sta solo esprimendo un’opinione privata, ma sta partecipando a una costruzione collettiva di senso, in cui le sue parole riverberano su chi lo ascolta, su chi lo segue, su chi si affida a lui in cerca di orientamento.
Prendersi cura del linguaggio significa riconoscere che le parole possono guarire, ma anche ferire. Possono aprire possibilità, ma anche irrigidire paure. Possono creare spazio, oppure rinchiuderlo. E nel tempo presente – attraversato da fratture, polarizzazioni, sfiducia crescente – la responsabilità di chi insegna non è solo quella di sapere, ma di parlare con consapevolezza. Di usare la propria voce non per costruire nemici, ma per alimentare domande. Non per rafforzare l’illusione di un sapere totale, ma per custodire la fragilità dell’incontro.
Il Reiki, nella sua forma più sobria e silenziosa, è forse una delle pratiche che meglio ci insegna questo: che l’energia non ha bisogno di clamore, che la trasformazione avviene spesso nel dettaglio, e che la cura è fatta anche di vigilanza. Vigilanza su ciò che trasmettiamo, anche fuori dalla sala corsi. Vigilanza sulle immagini che condividiamo, sulle semplificazioni che assecondiamo, sulle emozioni che mettiamo in circolo.
Non si tratta di censurare, né di giudicare con arroganza. Si tratta di scegliere con coerenza: se desideriamo che il Reiki resti uno spazio di fiducia e di libertà, dobbiamo preservarlo da ciò che alimenta il sospetto e il controllo. Se lo concepiamo come una pratica etica, dobbiamo renderla tale anche nel modo in cui abitiamo il discorso pubblico. E se, come diciamo spesso, crediamo che il Reiki sia prima di tutto una pratica di presenza, allora quella presenza deve cominciare anche da qui: dalle parole che usiamo, dai messaggi che rilanciamo, dal mondo che contribuiamo a costruire ogni volta che parliamo in nome del Reiki.
Mini glossario dei concetti chiave
- Spiritualità responsabile: pratica che rifiuta le scorciatoie ideologiche e si fonda su ascolto, contesto e consapevolezza.
- Retorica complottista: narrazione che semplifica il reale attraverso la costruzione di nemici e verità occulte.
- Pratica relazionale: Reiki inteso come gesto di cura incarnato, situato e costruito nella relazione con l’altro.
- Fidelizzazione tramite paura: dinamica affettiva che lega le persone a un messaggio basato su allarme, sfiducia e opposizione.
- Etica del linguaggio: responsabilità nell’uso pubblico delle parole, specialmente da parte di chi insegna e guida percorsi di crescita.
Bibliografia essenziale
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Anzaldúa, G. (1987). Borderlands/La Frontera: The New Mestiza. San Francisco: Aunt Lute Books.
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Gramsci, A. (1975). Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana. Torino: Einaudi.
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Heelas, P. and Woodhead, L. (2005). The Spiritual Revolution: Why Religion is Giving Way to Spirituality. Oxford: Blackwell.
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Mignolo, W.D. and Walsh, C.E. (2018). On Decoloniality: Concepts, Analytics, Praxis. Durham: Duke University Press.
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Taguieff, P.-A. (2005). La foire aux illuminés. Ésotérisme, théorie du complot, extrémisme. Paris: Mille et une nuits.
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Ward, C. and Voas, D. (2011). The Emergence of Conspirituality. In Journal of Contemporary Religion, 26(1), pp. 103–121.
2 Comments on “Reiki e complottismo spirituale: il caso Agenda 2030 tra cura e propaganda”
Nella mia esperienza di semplice praticante occidentale, che si è avvicinata al Reiki con tanta curiosità e fame di conoscere e capire, mi sono spesso imbattuta in due realtà che, pur molto diverse tra loro, stridevano con il mio sentire, ben prima di trovare conforto nelle parole di chi, come te, le descrive con chiarezza nella loro distorsione.
La prima è l’uso del Reiki come contenitore improprio: ho letto, visto, sperimentato come vi vengano riversate paure, rimuginii, pulsioni di riscatto e forme di narcisismo spirituale. Ho osservato dinamiche squilibrate tra maestro e allievi, con sfumature di sudditanza. A volte vengono integrate tecniche di counseling o approcci terapeutici, forse anche utili, ma che non dovrebbero mai essere inseriti senza il consenso esplicito di chi riceve. Non tutti si avvicinano al Reiki per “guarire”, spesso si cerca semplicemente uno spazio di ascolto e crescita.
La seconda, quella più stucchevole e rassicurante, legata all’estetica New Age fatta di chakra, vibrazioni luminose, angeli e cristalli, mi appare tutto sommato più inoffensiva. Perché quando davvero si entra nella pratica, angeli e cristalli vanno a farsi benedire. Resta la relazione con l’energia, il corpo, il silenzio.
Io abbraccio l’insegnamento del Reiki come una struttura a cipolla, fatta di strati da sfogliare, se e quando si è pronti. Ognuno si ferma dove si sente a casa, e va benissimo così.
Ed è proprio per questo che penso che la frase zen “Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo” dovrebbe essere scritta su ogni manuale di Reiki, per ricordarci che non esistono autorità assolute o risposte definitive.
Ti sono sinceramente grata per il tuo impegno coraggioso nel difendere e promuovere l’autenticità del Reiki. È un contributo prezioso e necessario
Cara Maria Sofia,
la tua riflessione restituisce con rara lucidità ciò che spesso resta implicito nelle pieghe dell’esperienza Reiki: non soltanto le dinamiche interiori di trasformazione, ma anche le tensioni politiche e simboliche che attraversano lo spazio della pratica. Leggendoti, è chiaro che ciò che chiami “semplice esperienza” è in realtà un atto di presa di parola, e per questo ha un valore profondo, anche politico. Perché nominare ciò che appare distorto, disequilibrato, o silenziato – che si tratti di derive carismatiche, appropriazioni terapeutiche o estetiche consolatorie – significa rifiutare l’indifferenza e assumersi la responsabilità del proprio sguardo.
La tua immagine della cipolla non descrive solo la complessità del Reiki come percorso, ma anche il modo in cui si stratificano poteri, retoriche, aspettative e relazioni nella cultura spirituale contemporanea. Ogni strato è, in fondo, anche un campo di forze: chi lo abita, in quale posizione, con quali diritti, con quale voce. E proprio per questo, come tu stessa scrivi, nessuno dovrebbe mai essere costretto a spingersi oltre dove si sente a casa. Ma allo stesso tempo, nessuno dovrebbe più tacere davanti a ciò che manipola o addomestica quella casa in nome di una verità spirituale superiore.
Nel tuo sguardo emerge una qualità che oggi considero rara e necessaria: quella di un’etica situata. Un’etica che non si rifugia nella neutralità, ma che ascolta con attenzione, distingue senza escludere, e prende posizione senza chiudere le possibilità. È questo, forse, il cuore più sottile della frase di Calvino che amo molto e che ciò che scrivi mi ha richiamato: «la superficie delle cose non finisce mai». Non si tratta di scavare per scoprire un centro più puro, ma di sostare nel gesto dell’osservare, senza cedere all’illusione di una risposta definitiva.
Ti ringrazio non solo per la gratitudine che hai espresso, ma per aver portato nello spazio della discussione quella forma di consapevolezza che è già, in sé, trasformazione. Le tue parole non sono soltanto uno scambio privato: sono un contributo alla costruzione di un Reiki più giusto, più consapevole, più umano.
Con stima e riconoscenza,
Federico