Reiki come disciplina? Un’analisi critica dell’intervista a Massimiliano Angeli

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

Dipinto astratto ispirato alla calligrafia orientale con cerchio rosso e tratti neri su sfondo beige, evocante energia, movimento e spiritualità.

Introduzione

Nel suo lungo e articolato intervento, Massimiliano Angeli ci restituisce una visione del Reiki fortemente strutturata: non una pratica intuitiva o spirituale, ma una disciplina – anzi, la Meravigliosa Disciplina. L’intervista si sviluppa come un piccolo trattato: preciso, sistematico, talvolta intransigente, in cui il Reiki viene pensato come un sapere regolato, finalizzato all’educazione del sistema Mentecorpo attraverso studio, metodo e pratica formale. Ma che cosa accade quando una pratica spirituale nata in Giappone viene riscritta dentro i codici epistemologici di una razionalità occidentale? In questa lettura critica, proveremo a interrogarci su tre dimensioni: la disciplina come tecnologia del sapere, il ruolo dell’autorità discorsiva e la cancellazione (pur involontaria) del contesto culturale giapponese.

La disciplina come ordine: epistemologia o governo dei corpi?

Angeli definisce il Reiki come un «complesso di regole di condotta finalizzato all’educazione interiore e corporea», articolato in precetti, simboli, tecniche e conoscenze che devono essere insegnate sistematicamente. Questa definizione, apparentemente neutra o addirittura rassicurante per chi cerca chiarezza e coerenza, inscrive però la pratica all’interno di una struttura epistemologica fortemente normativa, che richiama le grammatiche del sapere moderne: distinzione tra teoria e pratica, centralità del metodo come strumento di trasmissione legittima, e soprattutto una gerarchizzazione implicita tra chi detiene il sapere sistematico e chi lo riceve per gradi. È il paradigma della disciplina come tecnologia del sapere: il Reiki, in questa visione, non è un’esperienza che si scopre nel corpo, nella relazione o nell’evento, ma un corpus codificato che si apprende attraverso regole e si applica attraverso tecniche.

In termini foucaultiani, ci troviamo di fronte a un classico dispositivo di normalizzazione spirituale: una forma di organizzazione della soggettività che, invece di lasciare spazio alla molteplicità dell’esperienza, produce soggetti conformi a un modello di pratica codificato. Il corpo del praticante diventa così oggetto e veicolo di una pedagogia invisibile, in cui non si apprende solo “come si fa” Reiki, ma anche — e soprattutto — “come si deve essere” per praticarlo in modo corretto. L’esperienza viene gradualmente disinnescata della sua ambiguità, per essere sostituita dalla regolarità del metodo, dall’ordine interno della sequenza, dalla conformità a un’idea di purezza e rigore che rassicura ma anche restringe.

In questo quadro, il Reiki non è più una pratica situata, fluida, capace di adattarsi alle differenze e ai vissuti, ma una prestazione sistematica, la cui efficacia non risiede nella relazione, nella presenza o nella trasformazione vissuta, bensì nell’aderenza a un protocollo. Si passa così da una logica del contatto a una logica dell’applicazione; da un sapere incarnato a un sapere trasmesso; da una forma di conoscenza emergente a una dottrina. Il rischio non è solo quello di irrigidire la pratica, ma di sostituire la relazione viva con il Ki con una forma di ortoprassi energetica, in cui la correttezza tecnica prevale sulla disponibilità all’ascolto, e la sensibilità viene subordinata all’efficienza. Così, ciò che nasce come possibilità di trasformazione del sé rischia di diventare uno strumento di adattamento all’ordine.

Costruzione dell’autorità: chi può parlare del Reiki?

Il tono dell’intervista oscilla tra rigore accademico e fervore dottrinale. La figura del Master non è descritta come guida che accompagna, né come testimone esperienziale che condivide il proprio cammino, ma come guardiano del sapere: custode di un codice che deve essere preservato, difeso e trasmesso con rigore. Tale custodia si esercita per opposizione: contro i “corsi lampo”, contro gli “stregoni improvvisati”, contro coloro che, a detta di Angeli, mescolerebbero il Reiki con pratiche celtiche, indiane o addirittura con “forze mistico-marziane”. Il lessico, volutamente polemico, costruisce una frontiera netta tra chi è “dentro” e chi è “fuori” dalla legittimità — tra chi conosce e chi profana, tra chi segue la disciplina e chi la contamina.

Questa contrapposizione tra disciplinati e improvvisati, tra seri e confusi, non è solo una difesa della qualità della formazione: è la messa in scena di un dispositivo di purificazione epistemica, simile a quello che ha segnato storicamente la professionalizzazione delle pratiche di cura in Occidente. La logica è quella dell’accreditamento: il sapere valido è quello trasmesso secondo modalità riconosciute, ripetibili, formalmente fondate. L’autorevolezza non emerge dall’esperienza vissuta o dalla relazione trasformativa con il Reiki, ma dalla padronanza tecnica, dalla conoscenza codificata, dalla coerenza con un modello idealizzato. In altri termini, l’autorità spirituale viene traslata in autorità procedurale.

Ma applicare questo schema a una pratica come l’Usui Reiki Ryōhō, che nasce da una trasmissione semi-iniziatica, gestuale, relazionale, e profondamente situata nel paesaggio simbolico giapponese, produce una distorsione profonda. Ciò che è nato come esperienza trasformativa individuale e collettiva, plasmata da contesti culturali e silenzi corporei, viene riconfigurato come sapere da proteggere dall’alterazione. Il Reiki non è più un territorio da abitare con consapevolezza, ma un oggetto da custodire, insegnare, replicare secondo standard.

In questo spostamento, si intravede un paradosso epistemico: nel tentativo di elevare il Reiki a “disciplina seria”, per renderlo riconoscibile alle istituzioni e difendibile contro l’accusa di esoterismo, lo si priva della sua capacità di trasformare. Lo si reifica, lo si oggettiva, lo si estrania. Si diventa così proprietari del Reiki, anziché partecipi di un processo che richiede ascolto, trasformazione e apertura. E proprio nel momento in cui si invoca la purezza della trasmissione, si perde il cuore vivo dell’incontro.

Il Giappone silente: una riscrittura orientale dall’interno

Pur menzionando la Usui Reiki Ryōhō Gakkai e le quattro correnti principali oggi riconosciute (Komyo, Gendai, Jikiden, Shiki), Angeli non tematizza mai il contesto culturale, storico e filosofico giapponese in cui la pratica è nata e si è sviluppata. Il riferimento al Giappone resta formale, segnaletico, privo di conseguenze epistemiche. L’universo semantico e concettuale impiegato lungo tutta l’intervista è invece integralmente occidentale: si parla di “sistema mentecorpo”, “metodologia di riequilibrio energetico”, “energia proporzionalmente equa”, “disciplinamento interiore e corporeo”, “criteri sistematici di applicazione”. Si tratta di espressioni che non emergono da concetti giapponesi, ma dalla grammatica funzionale del sapere medico occidentale, in particolare nella sua declinazione cibernetica, omeostatica, razionale.

Di Usui Sensei restano il nome, un richiamo vago alla sua definizione della pratica, e l’autorità implicita che la sua figura conferisce. Ma non vi è alcun tentativo di ricostruire il suo orizzonte simbolico: né la sua formazione religiosa e culturale, né il significato delle parole giapponesi impiegate nei testi originali, né il paesaggio storico-filosofico che ha dato forma all’Usui Reiki Ryōhō. Non viene tematizzato il buddhismo Tendai, né il monte Kurama, né le nozioni di rei, ki, kokoro, né il ruolo delle pratiche ascetiche giapponesi (shugyō) nella costruzione di un’etica del corpo e dello spirito. In altre parole, il Giappone è evocato ma non interrogato, invocato come origine, ma escluso come contesto.

In termini decoloniali, siamo di fronte a una forma di auto-orientalismo funzionale (Miyake 2010): la provenienza giapponese viene mantenuta come sigillo di autenticità, ma svuotata del suo potenziale alterante. Il contenuto simbolico, culturale e rituale della pratica viene trascritto nel linguaggio dell’efficienza terapeutica, dell’equilibrio sistemico, della professionalizzazione energetica — un linguaggio che, pur rassicurante per l’interlocutore occidentale, cancella le differenze e produce un’illusione di universalità. È il tipico meccanismo dell’appropriazione epistemica: non si traduce, si riscrive. E ciò che viene riscritto, perde l’opacità e la densità dell’altro, per diventare conforme alle attese del soggetto bianco.

Questa operazione, anche se condotta in buona fede e con intento didattico, comporta una serie di effetti ideologici: da un lato, legittima la pratica agli occhi delle istituzioni e del pubblico generalista; dall’altro, priva il Reiki della sua storicità situata, trasformandolo in una tecnica depoliticizzata, esportabile, adattabile, intercambiabile con altre. In questa prospettiva, il Reiki non è più un’espressione della spiritualità giapponese moderna, ma un modulo terapeutico neutro, flessibile, formalizzabile. Si compie così un vero e proprio “whitening semantico” della pratica, che la rende accettabile perché riconoscibile, ma al prezzo della sua complessità.

Conclusione: tra nostalgia dell’ordine e desiderio di riconoscimento

Il testo di Angeli è, in tutta evidenza, una dichiarazione d’amore per il Reiki — ma è anche, tra le righe, un grido di frustrazione per la sua banalizzazione, per la perdita di rigore, per l’incontrollabilità del discorso pubblico che lo circonda. Il suo desiderio di studio, serietà, metodo è comprensibile, persino condivisibile, in un panorama affollato da corsi improvvisati, sincretismi superficiali e spiritualità spettacolarizzata. Tuttavia, il punto critico non è il rigore in sé, ma la forma di sapere e potere che quel rigore finisce per veicolare.

Ogni volta che una pratica spirituale viene trasformata in una disciplina da normalizzare, istituzionalizzare, certificare, ciò che viene messo a tacere è la sua parte ambigua, liminale, trasformativa — quella che non può essere insegnata in moduli né tradotta in schede tecniche. Il rischio, quando si costruisce il Reiki come un sapere sistematizzato, coerente, energeticamente misurabile, non è solo di renderlo più “serio”, ma di perderne la natura esperienziale e relazionale, di svuotarlo della sua apertura simbolica e della sua dimensione di ricerca vissuta.

La questione, allora, non è soltanto come rendere il Reiki rispettabile agli occhi delle istituzioni sanitarie o del discorso scientifico. La domanda più radicale è: quale tipo di sapere vogliamo far parlare attraverso il Reiki? Vogliamo costruirlo come una tecnica di riequilibrio energetico, formalmente accettabile e culturalmente neutra, oppure siamo disposti a riconoscere che il Reiki è anche — e forse soprattutto — una forma situata di conoscenza incarnata, affettiva, intersoggettiva, legata a storie, paesaggi e cosmologie specifiche?

Per questo, ogni tentativo di assimilare il Reiki al modello dell’agopuntura o delle medicine complementari occidentali, se non accompagnato da un lavoro profondo di contestualizzazione culturale, rischia di addomesticare la pratica sotto il segno di un universalismo bianco, depotenziandone la capacità di disordinare, di inquietare, di trasformare. Riconoscere il Reiki significa anche riconoscerne l’alterità — il suo essere emerso da un altro mondo simbolico, da un’altra lingua, da un’altra forma di relazione tra corpo, sapere e cura.

In altre parole: non si tratta di rendere il Reiki più accettabile, ma di interrogarci su ciò che siamo disposti a perdere per renderlo tale. Se il prezzo dell’integrazione è la perdita della complessità, della spiritualità incarnata, della memoria culturale, allora forse è tempo di chiedersi se quel riconoscimento valga il silenzio che impone.

📌 Nota editoriale

Questo articolo fa parte di un progetto di rilettura critica delle interviste pubblicate su MyReiki.it nel 2019.
A distanza di alcuni anni, rileggere queste voci alla luce di una riflessione antropologica e decoloniale significa non solo onorare il loro valore testimoniale, ma anche interrogare i linguaggi, le categorie e le visioni del mondo che vi emergono.
Queste analisi non intendono giudicare o correggere, bensì aprire uno spazio di pensiero, affinché la pratica del Reiki possa continuare a evolvere nel dialogo tra esperienza vissuta e consapevolezza culturale.

Bibliografia essenziale

  • Carrette, J. and King, R. (2005). Selling Spirituality: The Silent Takeover of Religion. London: Routledge.

  • Foucault, M. (1975). Surveiller et punir. Naissance de la prison. Paris: Gallimard.
    Trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino: Einaudi, 1976.

  • Mignolo, W. D. (2011). The Darker Side of Western Modernity: Global Futures, Decolonial Options. Durham: Duke University Press.

  • Miyake, T. (2010). Occidentalismi. La narrativa storica giapponese. Venezia: Cafoscarina.

  • Said, E. W. (1978). Orientalism. New York: Pantheon Books.
    Trad. it. Orientalismo. Milano: Feltrinelli, 1999.

Mini-glossario

Disciplina

Non semplice insieme di regole, ma forma di organizzazione del sapere e della pratica che impone un ordine sistematico ai gesti, ai significati e ai corpi. Nel testo di Angeli, la disciplina è proposta come struttura di rigore per il Reiki, ma questo implica anche una normalizzazione delle esperienze e una definizione univoca di ciò che è valido o corretto.

Metodo

Procedura tecnica codificata secondo criteri stabili, ripetibili e trasmissibili. L’identificazione del Reiki con un metodo può rafforzarne la credibilità, ma rischia anche di ridurlo a una sequenza operativa, allontanandolo dalla dimensione relazionale, spirituale e situata.

Epistemologia bianca

Insieme di regole e modelli conoscitivi che assumono i paradigmi occidentali come misura universale della verità, escludendo o riformulando altri modi di sapere. È la logica che spinge a presentare il Reiki in termini tecnico-scientifici per renderlo “accettabile” all’interno di un discorso dominante.

Spiritualità disciplinata

Forma di spiritualità che, per ottenere legittimità, assume il linguaggio, le forme e le strutture delle istituzioni normative (medicina, scuola, scienza). Il Reiki, in questo quadro, diventa un sapere ordinato, professionalizzato, addestrabile — più vicino alla prestazione che all’esperienza.

Auto-orientalismo

Processo attraverso cui praticanti o insegnanti di una disciplina non occidentale adottano inconsapevolmente visioni stereotipate della propria cultura per renderla comprensibile o vendibile al pubblico occidentale. Nel caso del Reiki, avviene quando si parla di “Reiki giapponese” ma lo si interpreta attraverso concetti e codici occidentali.

Cancellazione culturale

Meccanismo attraverso cui una pratica viene separata dal suo contesto storico, linguistico e simbolico d’origine, per essere risignificata secondo logiche diverse. Parlare di Reiki come energia, metodo o terapia senza nominare il Giappone, la lingua, o il buddhismo che l’ha attraversato, è un esempio di cancellazione culturale.

Autorità discorsiva

Posizione da cui si parla con tono normativo, producendo verità e stabilendo ciò che è corretto o legittimo. L’intervista costruisce una figura di maestro come custode del sapere “giusto”, che distingue i “veri praticanti” da quelli “improvvisati”, rafforzando una gerarchia invisibile ma efficace.

L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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