Il Giappone che incontriamo attraverso il Reiki non è mai neutro: è un Giappone già raccontato, desiderato, consumato.
Anime, estetiche zen, templi e ciliegi in fiore creano una geografia immaginaria che orienta anche il modo in cui pensiamo l’energia, la semplicità, la “spiritualità giapponese”. A partire dalle analisi di Toshio Miyake sull’orientalismo e l’auto-orientalismo, questo articolo propone un’inchiesta sul soft power culturale del Giappone in Italia e sulle sue ricadute nella pratica del Reiki: quale Giappone stiamo immaginando? quale Reiki stiamo praticando? La risposta non è solo teorica, tocca il corpo, il modo in cui ci disponiamo alla cura, il modo in cui abitiamo il desiderio di un “altrove” spirituale.
Il Giappone che arriva fino a noi
Prima ancora di prenotare un volo per Tokyo o di salire a Kurama, molti di noi hanno attraversato il Giappone senza muoversi dal divano di casa. Il Giappone arriva in Italia attraverso frammenti che si sedimentano nel tempo: le serie anime della nostra infanzia, i manga comprati in edicola, le figurine dei robot e dei cavalieri dello zodiaco, i ristoranti “giapponesi” che mescolano sushi, sake e musica di sottofondo che promette calma e armonia, le immagini di templi immersi nei ciliegi fioriti che popolano le pubblicità e i social.
In altre parole, prima ancora di incontrare il Giappone come luogo, lo incontriamo come atmosfera: un insieme di colori, suoni, oggetti, gesti che diventano familiari molto prima di essere compresi. Come mostra Miyake, l’Italia è uno dei paesi europei in cui l’industria culturale giapponese ha avuto una diffusione precoce e massiccia: dalla “Goldrake generation” in poi, intere coorti sono state socializzate a un certo Giappone attraverso la televisione e, oggi, le piattaforme digitali (Miyake: 2018).
Il Reiki entra spesso dentro questa stessa costellazione simbolica. Per molti praticanti, il primo contatto con il Giappone non passa da un corso universitario di studi orientali, ma da una serie di suggerimenti sottotraccia: l’amica che parla di “energia giapponese”, il volantino che abbina ideogrammi stilizzati a una calligrafia sottile, il sito che racconta di un monaco in meditazione sul Monte Kurama, la fotografia di un torii rosso davanti a un bosco di cedri. Il Giappone diventa così il nome di uno sfondo affettivo in cui il Reiki appare immediatamente naturale, quasi ovvio: se esiste un luogo al mondo dove una pratica di “energia delle mani” può nascere, sembra che quel luogo non possa che essere il Giappone.
Da un’altra angolazione, questa ovvietà merita di essere problematizzata. Ci si potrebbe chiedere perché un determinato paese venga associato alla spiritualità, alla semplicità, alla purezza delle tradizioni, mentre altri restino sullo sfondo, come se non potessero generare percorsi di cura altrettanto profondi. Qui iniziano a emergere le domande che faranno da filo rosso all’articolo: quale Giappone stiamo immaginando quando diciamo Reiki? E quale parte di noi, del nostro essere europei, italiani, contemporanei, si sta riflettendo in quell’immagine?
Il punto cruciale è che il Giappone che abita il nostro immaginario Reiki non coincide con la somma dei fatti storici, delle pratiche religiose, delle tensioni politiche del Giappone contemporaneo. Si tratta piuttosto di una figura culturale: un Giappone che appare come deposito privilegiato di autenticità, spiritualità, profondità, e che funziona al tempo stesso come specchio delle nostre inquietudini.
In questo quadro, il Reiki diventa una sorta di passaggio di frontiera: un gesto semplice – appoggiare le mani – che promette accesso a un orizzonte più vasto, segnato da parole giapponesi, simboli, racconti di maestri e montagne sacre. Tuttavia, la frontiera che oltrepassiamo è anche una frontiera di immagini. Comprendere da dove arrivano, come si sono formate e che tipo di potere esercitano è il primo passo per un’etica più consapevole della pratica.
Verso una pratica situata, non esotizzante
Riconoscere il funzionamento degli immaginari che attraversano il Reiki non significa sottrarre poesia alla pratica. Significa, piuttosto, restituirle la sua profondità. Una pratica è situata quando non si nasconde dietro narrazioni idealizzate, ma accoglie la complessità culturale da cui proviene e quella del contesto in cui prende forma.
Il Reiki, in Italia, può allora diventare un laboratorio di consapevolezza interculturale: non un’esperienza che ripete stereotipi sul Giappone, ma un’esperienza che osserva come quei medesimi stereotipi agiscano sul corpo, sulle aspettative, sulle relazioni tra insegnante e praticante.
In altre parole, una pratica situata è una pratica che non si limita a “prendere” dal Giappone:
- si interroga sul modo in cui quel Giappone è stato costruito;
- riconosce la selezione culturale che ha reso alcune immagini più visibili di altre;
- problematizza l’idea stessa di autenticità, intesa come origine incontaminata o essenza eterna;
- accoglie la possibilità che anche la spiritualità sia una costruzione storica, e che proprio per questo sia viva, fragile, aperta.
Miyake invita a comprendere come ogni discorso sul Giappone — anche i più benevoli — partecipi alla riproduzione di una geografia immaginaria essenzializzante. Una pratica non esotizzante non rifiuta questa geografia, ma la rende visibile; non la abolisce, ma la attraversa con cura.
Da un’altra angolazione, questo implica accettare che il Reiki non è una finestra trasparente sul Giappone, ma un prisma: ciò che vediamo dipende dall’angolo da cui guardiamo.
Una pratica situata riconosce questo prisma, lo studia, lo interroga, lo include nella propria riflessività.
E questo non sottrae nulla al valore del Reiki.
Al contrario: lo libera dal peso di dover essere un “sapere antico e puro”; gli permette di diventare una pratica di attenzione più che una pratica di autenticità, un’arte del sentire più che un’arte del ripetere.
Il Reiki può così smettere di essere un ponte verso un altrove idealizzato e diventare un modo di radicarsi più profondamente nella propria esperienza, qui e ora, senza rinnegare l’intreccio culturale da cui è emerso.
Il Reiki non deve più salvare il Giappone dall’occidentalizzazione, né salvare l’Occidente dalla propria modernità.
Può limitarsi a ciò che fa meglio: creare condizioni di incontro, generare spazi di cura, far emergere consapevolezza, invitare a guardare ciò che abitiamo senza rifugiarci in ciò che immaginiamo.
Una chiusura fenomenologica: un altro modo di incontrare il Giappone
Arrivando alla fine di questo percorso, l’immagine del Giappone non si dissolve; si trasforma. Non è più un fondale spirituale, né un oggetto esotico da consumare. È uno spazio relazionale che si apre ogni volta che pratichiamo Reiki, ma solo se siamo disposti a riconoscere il peso delle immagini che ci abitano e delle storie che ripetiamo.
Una chiusura fenomenologica non può che partire dal corpo.
Perché la pratica — al di là dei discorsi, delle genealogie, delle rappresentazioni — prende forma lì: nel calore che passa tra le mani, nel ritmo del respiro, nella quiete che emerge lentamente quando l’attenzione si fa più precisa, più porosa, più presente.
In quel momento, ciò che chiamiamo “Giappone” non è più un paese lontano, ma un orizzonte simbolico che si deposita nei nostri gesti. È un luogo che non abitiamo geograficamente ma che attraversiamo attraverso immagini, racconti, storie, desideri.
E tuttavia, proprio perché il Giappone del Reiki è un luogo immaginato, possiamo imparare a incontrarlo diversamente: non come essenza, ma come relazione.
Da un’altra angolazione, questo incontro non richiede di cancellare l’immaginario, ma di illuminarlo.
Significa comprendere che ogni volta che appoggiamo le mani, appoggiamo anche secoli di rappresentazioni dell’Oriente; significa riconoscere che il nostro corpo non è mai un corpo neutro, ma un corpo situato dentro storie culturali che lo precedono; significa accettare che la spiritualità non è mai pura, ma sempre intrecciata a poteri, simboli, narrazioni.
E tuttavia — ed è qui che il Reiki riacquista la sua forza — la pratica ci offre una via d’uscita.
Non una fuga verso un Giappone immaginato, ma un ritorno a noi stessi attraverso la consapevolezza delle immagini che ci attraversano.
L’incontro con il Giappone può allora diventare un incontro non con un altrove mitico, ma con il modo in cui i nostri corpi fanno esperienza dell’altrove: una forma di conoscenza incarnata, fragile, aperta, situata.
Il Reiki, in questo senso, non è un viaggio verso il Giappone, ma un viaggio attraverso il Giappone che abbiamo costruito — per poi superarlo, attraversarlo, lasciarlo andare.
E nel lasciare andare l’immagine, forse accade qualcosa di più semplice e più reale:
un gesto che incontra un corpo, una presenza che incontra un’altra presenza, una pratica che non ha più bisogno di miti per essere viva.
Il Giappone, allora, torna a essere ciò che è sempre stato: non un altare, ma un interlocutore.
E il Reiki torna a essere ciò che può davvero diventare: un modo per ascoltare più a fondo, non il Giappone, ma noi stessi in relazione al mondo.
Mini-Glossario
Soft power
Termine coniato da Joseph Nye per descrivere la capacità di uno Stato di esercitare influenza nel mondo non attraverso la forza, ma attraverso l’attrattività culturale: media, estetiche, prodotti, immaginari. Nel caso del Giappone, anime, manga, design, spiritualità e turismo contribuiscono a modellare un “desiderio di Giappone” che influisce anche sulla ricezione del Reiki.
Orientalismo
Nel senso reso celebre da Edward Said, è l’insieme dei discorsi attraverso cui l’Occidente ha rappresentato l’Oriente come diverso, esotico, spirituale, primitivo o esteticamente superiore. Una struttura di pensiero che produce immagini più che descrizioni e che condiziona profondamente l’immaginario europeo sul Giappone.
Orientalismo “positivo”
Forma benevola ma altrettanto stereotipata dell’orientalismo, che idealizza l’Oriente come custode di purezza, armonia, spiritualità e autenticità perdute. È una delle lenti con cui il Reiki giunge in Europa, trasformando il Giappone in un altrove salvifico.
Doppio orientalismo
Concetto elaborato da Toshio Miyake: il Giappone viene alternatamente rappresentato come iper-tradizionale (spiritualità, natura, ritualità) oppure iper-moderno (tecnologie, futurismo, alienazione). Due poli opposti ma complementari che mantengono il Giappone in uno stato permanente di alterità.
Auto-orientalismo
Processo attraverso cui il Giappone stesso interiorizza lo sguardo occidentale e lo utilizza per rappresentarsi. Tradizione, spiritualità e semplicità diventano risorse simboliche da offrire a un Occidente che le desidera, con effetti diretti sulla diffusione di pratiche come il Reiki.
Geografia immaginaria
L’insieme delle rappresentazioni, aspettative e narrazioni che definiscono ciò che l’Occidente “vede” quando immagina il Giappone. Non una mappa della realtà, ma un paesaggio simbolico, costruito storicamente, che orienta anche il modo di interpretare il Reiki.
Reiki “giapponese”
Espressione che, nel discorso occidentale, indica un modello idealizzato del Reiki come pratica antica, pura, immutabile e radicata in un Giappone spiritualizzato. Una costruzione culturale che spesso non coincide con la storia reale e plurale della pratica.
Pratica situata
Modalità di praticare il Reiki riconoscendo il contesto culturale in cui esso prende forma e la natura storica delle immagini che vi circolano. Significa integrare riflessività, attenzione e consapevolezza critica nella relazione tra corpo, gesto e immaginario.
Bibliografia
Bell, C. (1992). Ritual Theory, Ritual Practice. New York: Oxford University Press.
Csordas, T. J. (1994). The Sacred Self. A Cultural Phenomenology of Charismatic Healing. Berkeley–Los Angeles: University of California Press.
Iwabuchi, K. (2002). Recentering Globalization: Popular Culture and Japanese Transnationalism. Durham–London: Duke University Press.
Miyake, T. (2014). Mostri del Giappone. Narrative, figure, egemonie della dis-locazione identitaria , Edizioni Ca’ Foscari
Miyake, T. (2018). Il Giappone made in Italy: antropologia dell’immaginario italiano sul Giappone (1860–2018). In: Orizzonti giapponesi, pp. 607-627 (dicembre 2018).
Nye, J. (2004). Soft Power: The Means to Success in World Politics. New York: Public Affairs.
Said, E. W. (1978). Orientalism. New York: Pantheon Books.
Stein, J. B. (2022). Alternate Currents: Reiki’s Circulation in Twentieth-Century Japan and the Wider World. Honolulu: University of Hawai‘i Press.
Tanaka, S. (1993). Japan’s Orient: Rendering Pasts into History. Berkeley–Los Angeles: University of California Press.
