Reiki e Giappone: come l’immaginario culturale plasma la pratica

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

Giardino zen con sabbia pettinata, pietre sovrapposte e padiglione in stile giapponese accanto a uno stagno, illuminato dalla luce calda del tramonto.
Abstract
Il Giappone che incontriamo attraverso il Reiki non è mai neutro: è un Giappone già raccontato, desiderato, consumato.
Anime, estetiche zen, templi e ciliegi in fiore creano una geografia immaginaria che orienta anche il modo in cui pensiamo l’energia, la semplicità, la “spiritualità giapponese”. A partire dalle analisi di Toshio Miyake sull’orientalismo e l’auto-orientalismo, questo articolo propone un’inchiesta sul soft power culturale del Giappone in Italia e sulle sue ricadute nella pratica del Reiki: quale Giappone stiamo immaginando? quale Reiki stiamo praticando? La risposta non è solo teorica, tocca il corpo, il modo in cui ci disponiamo alla cura, il modo in cui abitiamo il desiderio di un “altrove” spirituale.

Il Giappone che arriva fino a noi

Prima ancora di prenotare un volo per Tokyo o di salire a Kurama, molti di noi hanno attraversato il Giappone senza muoversi dal divano di casa. Il Giappone arriva in Italia attraverso frammenti che si sedimentano nel tempo: le serie anime della nostra infanzia, i manga comprati in edicola, le figurine dei robot e dei cavalieri dello zodiaco, i ristoranti “giapponesi” che mescolano sushi, sake e musica di sottofondo che promette calma e armonia, le immagini di templi immersi nei ciliegi fioriti che popolano le pubblicità e i social.

In altre parole, prima ancora di incontrare il Giappone come luogo, lo incontriamo come atmosfera: un insieme di colori, suoni, oggetti, gesti che diventano familiari molto prima di essere compresi. Come mostra Miyake, l’Italia è uno dei paesi europei in cui l’industria culturale giapponese ha avuto una diffusione precoce e massiccia: dalla “Goldrake generation” in poi, intere coorti sono state socializzate a un certo Giappone attraverso la televisione e, oggi, le piattaforme digitali (Miyake: 2018).

Il Reiki entra spesso dentro questa stessa costellazione simbolica. Per molti praticanti, il primo contatto con il Giappone non passa da un corso universitario di studi orientali, ma da una serie di suggerimenti sottotraccia: l’amica che parla di “energia giapponese”, il volantino che abbina ideogrammi stilizzati a una calligrafia sottile, il sito che racconta di un monaco in meditazione sul Monte Kurama, la fotografia di un torii rosso davanti a un bosco di cedri. Il Giappone diventa così il nome di uno sfondo affettivo in cui il Reiki appare immediatamente naturale, quasi ovvio: se esiste un luogo al mondo dove una pratica di “energia delle mani” può nascere, sembra che quel luogo non possa che essere il Giappone.

Da un’altra angolazione, questa ovvietà merita di essere problematizzata. Ci si potrebbe chiedere perché un determinato paese venga associato alla spiritualità, alla semplicità, alla purezza delle tradizioni, mentre altri restino sullo sfondo, come se non potessero generare percorsi di cura altrettanto profondi. Qui iniziano a emergere le domande che faranno da filo rosso all’articolo: quale Giappone stiamo immaginando quando diciamo Reiki? E quale parte di noi, del nostro essere europei, italiani, contemporanei, si sta riflettendo in quell’immagine?

Il punto cruciale è che il Giappone che abita il nostro immaginario Reiki non coincide con la somma dei fatti storici, delle pratiche religiose, delle tensioni politiche del Giappone contemporaneo. Si tratta piuttosto di una figura culturale: un Giappone che appare come deposito privilegiato di autenticità, spiritualità, profondità, e che funziona al tempo stesso come specchio delle nostre inquietudini.

In questo quadro, il Reiki diventa una sorta di passaggio di frontiera: un gesto semplice – appoggiare le mani – che promette accesso a un orizzonte più vasto, segnato da parole giapponesi, simboli, racconti di maestri e montagne sacre. Tuttavia, la frontiera che oltrepassiamo è anche una frontiera di immagini. Comprendere da dove arrivano, come si sono formate e che tipo di potere esercitano è il primo passo per un’etica più consapevole della pratica.

Soft power o geografia immaginaria? Il Giappone come dispositivo culturale

Spesso si parla del Giappone come di una potenza di soft power: un paese che esercita influenza non tanto attraverso la forza militare o economica, quanto attraverso la capacità di far desiderare la propria cultura, i propri prodotti, i propri paesaggi simbolici. Anime, manga, J-pop, design minimalista, estetiche zen e pratiche meditative rientrano in questa strategia, declinata anche a livello istituzionale sotto etichette come Cool Japan (Miyake: 2018).

Tuttavia, se ci si ferma soltanto alla categoria di soft power, il rischio è quello di leggere il Giappone come un soggetto compatto che “decide” di esportare la propria immagine nel mondo e un pubblico occidentale che la riceve dall’esterno, quasi in modo passivo. Miyake propone un passo ulteriore: invece di considerare il soft power come un semplice flusso unidirezionale di influenza, invita a vedere il Giappone in Italia come parte di una geografia immaginaria costruita nel tempo dall’intreccio fra orientalismo, occidentalismo e auto-orientalismo (Miyake: 2014; Miyake: 2018).

In altre parole, il Giappone che consumiamo – nei manga come nel Reiki – prende forma dentro una cartografia che, da secoli, divide il mondo in “Oriente” e “Occidente”, assegnando all’uno e all’altro insiemi di qualità opposte: razionalità contro emotività, modernità contro tradizione, tecnologia contro spiritualità, individualismo contro comunità. Nel quadro ricostruito da Miyake, questa divisione non è un semplice gioco di rappresentazioni superficiali. È un’episteme, direbbe Foucault, cioè un sistema di idee e di pratiche che stabilisce che cosa è pensabile, dicibile, visibile, desiderabile in un’epoca storica determinata (Miyake: 2014).

Da un’altra prospettiva, potremmo dire che il soft power giapponese funziona proprio perché trova un terreno già pronto. Quando un logo, un’immagine o un racconto si presentano come “giapponesi”, attivano una serie di aspettative che si sono accumulate nel tempo: l’idea di una natura incontaminata, di una spiritualità raffinata, di una disciplina interiore che unisce estetica e rigore. Il Reiki si innesta su questo stesso terreno: parla di energia, di armonia, di semplicità, e il fatto di essere “giapponese” conferisce a queste parole un’aura di autenticità che difficilmente avrebbero se fossero associate, per esempio, a un contesto europeo o latinoamericano.

Miyake propone il termine giapponismo per indicare il processo attraverso cui in Italia, lungo i secoli, si è costruita un’idea di “Giappone” che serve contemporaneamente a definire un’alterità orientale e un’identità italiana, entrambe collocate dentro il dualismo egemone Oriente/Occidente (Miyake: 2018). Questa dinamica non riguarda solo i romanzi di d’Annunzio o il fascino ottocentesco per le stampe ukiyo-e; attraversa anche le forme più recenti di consumo culturale, dalla moda alle pratiche spirituali.

Il Reiki, da questo punto di vista, non sta ai margini di questa storia. Rientra a pieno titolo in ciò che Miyake descrive come «qualsiasi discorso, sapere, pratica, emozione, istituzione che contribuisce all’idea dell’esistenza di qualcosa come “giapponese” in relazione a qualcosa di “italiano”» (Miyake: 2018).

Ogni volta che un corso, un libro o un sito web presentano il Reiki come “antica disciplina giapponese”, come “via energetica zen”, come “metodo orientale di armonizzazione”, stanno partecipando a questo giapponismo: rafforzano un certo modo di tracciare confini tra noi e gli altri, tra qui e altrove, tra Occidente e Oriente.

Ciò che diventa interessante, allora, è osservare come questo dispositivo culturale agisca anche sui corpi. Quando ci disponiamo su un futon, recitiamo i cinque principi in giapponese, visualizziamo una montagna avvolta nella nebbia o una sala tatami essenziale e luminosa, non stiamo solo adottando una tecnica; stiamo abitando una scena immaginaria che lega la cura al sogno di un Giappone spirituale e pacificato. Il soft power del Giappone, qui, si intreccia con il nostro desiderio di una forma diversa di vita, di tempo, di attenzione.

Proprio a partire da questo intreccio, diventa urgente chiedersi: quando parliamo di Reiki “giapponese”, stiamo incontrando un altro reale o stiamo muovendoci dentro una cartografia che abbiamo interiorizzato senza accorgercene?

L’orientalismo “positivo”: l’altra faccia del problema

Nella storia dei rapporti culturali tra Europa e Asia, l’orientalismo non ha assunto soltanto forme esplicitamente razzializzanti o dispregiative. Esiste anche una variante più sottile e seducente: quella che Miyake definisce a tutti gli effetti una idealizzazione dell’Oriente, una costruzione in cui l’altro asiatico — e il Giappone in particolare — viene elevato a custode di una supposta superiorità spirituale, estetica o morale (Miyake: 2014).

Questo elogio dell’Oriente coincide spesso con l’elogio dei valori che l’Occidente ritiene di aver smarrito: la purezza, la calma, la ritualità, la continuità con la natura, la capacità di ascolto. È ciò che Said già notava: l’orientalismo può assumere forme benevole, paternalistiche, affettive, ma continua a funzionare come dispositivo di alterità. L’Oriente rimane altro, distante, statico, esemplare proprio perché appare come ciò che noi non siamo più.

Quando parliamo del Reiki in Italia, questa dinamica è particolarmente evidente. La pratica viene spesso presentata come un sentiero “semplice”, “naturale”, “armonico”, nato in un paese che l’immaginario occidentale continua a proiettare fuori dal tempo. È come se il Giappone fosse una sorta di camera silenziosa in cui depositare, al riparo da fratture e conflitti, i nostri desideri di spiritualità.

Laddove in Italia il termine “energia” rischierebbe di essere percepito come vago o sospetto, l’associazione con il Giappone lo rende immediatamente credibile: lo colloca dentro un’estetica già disponibile, fatta di calligrafie essenziali, templi immersi nella nebbia, suoni di campane e tatami di legno chiaro.
Da un’altra prospettiva, questa fiducia non riguarda un Giappone reale, storico, plurale; riguarda un Giappone immaginato. È quello che Miyake definisce con grande precisione: una iper-tradizione selezionata, resa visibile proprio perché rispecchia ciò che l’Occidente desidera vedere (Miyake: 2018).

In questo quadro, l’orientalismo “positivo” produce un effetto di cristallizzazione. Il Giappone smette di essere un paese attraversato da tensioni, tecnologie, crisi demografiche, trasformazioni religiose, e si riduce a puro sfondo spirituale.
Il Reiki, di conseguenza, rischia di diventare un simbolo più che una pratica: una promessa di autenticità che riprende elementi selezionati — il Monte Kurama, i cinque principi, l’idea di una tradizione millenaria — e li ricompone in una narrazione pacificata, senza attriti.

La domanda che emerge è inevitabile: quanto del Reiki che pratichiamo nasce da un incontro, e quanto da un desiderio che precede l’incontro stesso?

Domanda che non indebolisce la pratica; la rende invece più profonda, perché ci invita a osservare come il nostro immaginare condizioni il nostro praticare. Il rischio non riguarda solo la rappresentazione del Giappone: riguarda il modo in cui trattiamo la spiritualità come spazio di consumo, come luogo di compensazione rispetto alle fragilità dell’Occidente contemporaneo.

Accorgersi di questo non significa sospendere il fascino, ma attraversarlo con consapevolezza.

L’auto-orientalismo: quando è il Giappone stesso a modellare la sua immagine

Se l’Occidente proietta sul Giappone una tradizione spirituale senza conflitti, è altrettanto importante ricordare — con Miyake, Sakai e Coronil — che questa immagine non viene semplicemente subita. Il Giappone moderno e contemporaneo ha imparato a performare strategicamente la propria orientalità, interiorizzando lo sguardo euro-americano e restituendogli una versione di sé che corrisponde alle aspettative globali (Miyake: 2014).

In altre parole, il Giappone non è soltanto oggetto dell’orientalismo: ne diventa anche soggetto.
Questo processo è ciò che Miyake chiama auto-orientalismo. Esso consiste nell’assumere gli stessi criteri con cui l’Occidente definisce l’Oriente, e usarli per costruire la propria identità culturale, politica ed estetica.

Quando il Giappone presenta sé stesso come paese della delicatezza rituale, dell’armonia naturale, della spiritualità essenziale, non sta semplicemente “descrivendo” ciò che è. Sta partecipando a una negoziazione globale di immagini: una partita di soft power in cui la tradizione diventa risorsa simbolica, merce culturale, marchio internazionale.

Da un’altra angolazione, questo meccanismo non riguarda solo il turismo o l’industria dei media. Riguarda anche le pratiche spirituali che il Giappone esporta o che l’Occidente importa: Reiki, zen, ikebana, meditazione, buddismo in versione semplificata.
Queste pratiche vengono spesso offerte — e consumate — come tradizioni “pure”, “antiche”, “non contaminate”, perfettamente allineate con la domanda occidentale di equilibrio e senso.

L’auto-orientalismo compie quindi una torsione particolare: offre all’Occidente ciò che l’Occidente si aspetta dall’Oriente.

Nel mondo del Reiki, questo si manifesta in diversi modi:

  • la costruzione di una genealogia “sacra”, lineare, priva di conflitti;
  • la selezione di elementi tradizionali presentati come invarianti culturali, al di fuori della storia;
  • l’uso di simboli e calligrafie come garanzia di autenticità;
  • l’enfasi su un Usui solitario e illuminato, quasi erede di una spiritualità giapponese eterna.

Miyake ci invita invece a osservare come questa immagine sia il prodotto di una relazione, non di un’origine. La tradizione non è mai qualcosa che si eredita passivamente; è sempre qualcosa che si costruisce, talvolta proprio per venire incontro agli sguardi esterni, alle aspettative del mercato globale, alle richieste implicite di spiritualità.

Che cosa implica tutto questo per la nostra pratica?
Implica che quando cerchiamo un “Reiki giapponese autentico”, rischiamo di inseguire una figura costruita a metà tra desiderio occidentale e auto-rappresentazione giapponese.
Un’immagine potente, certo, ma non necessariamente trasparente.

Da qui emerge un’altra domanda cruciale: il Reiki che pratichiamo ci avvicina al Giappone o ci avvicina a una certa idea di Giappone prodotta dal soft power e dalla storia dell’orientalismo?

In altre parole, stiamo dialogando con una tradizione viva o con un’immagine riflessa?

Il doppio orientalismo: iper-tradizione e iper-modernità

Una delle intuizioni più feconde di Miyake riguarda ciò che definisce doppio orientalismo: un movimento oscillatorio in cui il Giappone viene alternativamente collocato prima della modernità (tradizione, spiritualità, natura) oppure dopo di essa (tecnologia estrema, alienazione urbana, robotica, futurismo distopico) (Miyake: 2014; 2018).

Questa oscillazione produce un effetto preciso: il Giappone non è mai un paese “normale”, inserito nel flusso storico globale; è sempre un altrove radicale, posizionato su un crinale che sta agli opposti della cartografia immaginaria euro-americana.
In un caso è luogo di purezza arcaica; nell’altro è avamposto di un futuro in cui la macchina ha superato l’uomo.

Il Reiki, nella sua circolazione italiana, viene catturato quasi interamente dal primo polo di questa oscillazione. Il Giappone del Reiki è un Giappone che precede la modernità, una sorta di monolite spirituale sospeso tra boschi, templi, acque termali, riti segreti e pratiche ancestrali.
È un Giappone iper-tradizionale, purificato dai rumori della storia, dove la spiritualità appare come tratto “naturale” e non come costruzione culturale.

Da un’altra angolazione, questa selezione non è innocua.
La scelta di valorizzare solo la metà “tradizionale” del doppio orientalismo implica che l’altra metà — il Giappone tecnologico, contraddittorio, densamente urbano, segnato da fenomeni come hikikomori, karōshi, precarietà generazionale — venga espulsa dal campo della rappresentazione.

È come se il Reiki, per essere credibile, avesse bisogno di un Giappone che non esiste più, o che forse non è mai esistito così come lo immaginiamo. Il Monte Kurama diventa allora un simbolo: non un luogo reale con la sua storia religiosa complessa, ma un vettore di autenticità che stabilisce una distanza temporale rassicurante.

Questo meccanismo non riguarda solo la spiritualità.
Nel cinema occidentale convivono due Giappone inconciliabili:

  • quello arcaico delle geisha, dei giardini zen, dei samurai;
  • quello iper-moderno di Shinjuku illuminata a giorno, dei treni ad alta velocità, dei robot umanoidi.

Miyake mostra come queste due immagini, apparentemente opposte, siano in realtà complementari: entrambe mantengono il Giappone in uno stato di eterna alterità, impedendogli di essere percepito come società complessa, storica, frammentata, simile alle altre.
La spiritualità del Reiki, in Italia, si inserisce nella prima immagine, e questo rende la pratica più affascinante ma anche più fragile.

La domanda che emerge è la seguente: che cosa accadrebbe al Reiki se il Giappone fosse restituito alla sua complessità?
Anche questa è una forma di cura: smettere di ripetere immagini e iniziare a osservare come i nostri immaginari condizionano i nostri gesti, le nostre parole, i nostri corpi.

Quale Reiki stiamo immaginando? Il Reiki come specchio dell’Occidente

Arrivati a questo punto, diventa chiaro che la domanda «quale Giappone stiamo immaginando?» è inseparabile dall’altra: quale Reiki stiamo immaginando?

Il Reiki non circola mai da solo: viaggia insieme alle narrazioni che lo accompagnano, ai simboli che lo rappresentano, alle genealogie che lo legittimano.
Nella maggior parte dei contesti occidentali, il Reiki viene presentato come una pratica “giapponese” dotata di una purezza originaria, collocata in un passato indistinto ma prestigioso, in cui Usui appare come un mistico solitario che riceve l’illuminazione su un monte.

Questa immagine ha poco a che vedere con la storia reale del Reiki, che è frammentata, complessa, segnata da reinterpretazioni, adattamenti, momenti di conflitto, riscritture continue. Justin Stein — così come Miyake — mostra come molte delle narrazioni oggi diffuse siano il prodotto di processi culturali ben più intricati, e spesso più recenti, rispetto all’immagine “tradizionale” che circola in Europa e negli Stati Uniti.

Da un’altra prospettiva, ciò che chiamiamo “Reiki giapponese autentico” è spesso il risultato di una fusione culturale: elementi presi dal buddismo, dallo scintoismo, dal mondo delle pratiche di guarigione popolari, e poi riorganizzati secondo la sensibilità occidentale novecentesca, che cercava un ponte tra spiritualità e modernità, tra energia e psicologia, tra ritualità e laicità.

In questo senso, il Reiki non è solo un sapere che arriva dal Giappone; è un dispositivo che permette all’Occidente di pensare sé stesso attraverso un altrove.
L’idea di armonia, di energia, di semplicità, di via naturale, risponde a desideri profondi della contemporaneità occidentale, che cerca strumenti per sottrarsi al ritmo produttivo, all’iper-razionalismo, alla saturazione cognitiva.

Il Reiki funziona allora come uno specchio.
Restituisce un’immagine del Giappone che rassicura e ispira, ma restituisce anche — in modo riflesso — un’immagine dell’Occidente in crisi, alla ricerca di forme alternative di presenza, di cura, di interiorità.
Miyake, con la sua prospettiva relazionale, permette di comprendere ciò che spesso non vediamo: che il Reiki non è mai semplicemente “giapponese”, è piuttosto un luogo di incontro (o di distanza) tra immaginari italiani ed estetiche giapponesi, tra desideri europei e forme giapponesi di auto-rappresentazione.

Il rischio, naturalmente, è quello di cadere in una sorta di autenticismo romantico: credere che esista un Reiki “puro”, incontaminato, che sarebbe stato alterato solo dalla circolazione occidentale.
Questo mito dell’origine funziona come un punto di ancoraggio emotivo, ma impedisce di vedere il Reiki come pratica viva, in continuo movimento.

Il Reiki che immaginiamo determina il Reiki che pratichiamo.
La questione non è filologica, ma profondamente etica:
quali forme di spiritualità stiamo contribuendo a riprodurre? Quali immagini del Giappone stiamo rinforzando? Quali possibilità di cura stiamo amplificando o limitando?

La risposta non può essere semplice. Ma proprio questa complessità è ciò che permette al Reiki di diventare una pratica non timorosa della storia, né dei suoi immaginari, né dei processi culturali che lo attraversano.

Quale Giappone stiamo evitando di vedere?

Ogni immaginario crea visibilità, ma crea anche ombre.
Per comprendere quale Giappone alimenta la pratica del Reiki in Italia, diventa allora necessario interrogare ciò che non vediamo, ciò che resta escluso, ciò che viene attivamente cancellato nel momento in cui scegliamo — consapevolmente o meno — di raccontare il paese come luogo di purezza rituale, armonia naturale, spiritualità non conflittuale.

Miyake mostra come l’immaginario orientalista operi attraverso una selezione progressiva: accentua alcuni tratti, ne oscura altri, fino a costruire una figura dell’Oriente che non coincide con la realtà storica, ma con le aspettative dell’Occidente (Miyake: 2014; 2018).
Così, nell’immaginario Reiki, il Giappone appare come una civiltà spirituale senza fratture, senza tensioni, senza trasformazioni. Una civiltà “coesa”, spesso presentata come se fosse rimasta identica nei secoli, impermeabile alla modernità e agli sconvolgimenti sociali.

Ciò che viene lasciato fuori è altrettanto rilevante di ciò che viene incluso.
Raramente, ad esempio, l’Italia che pratica Reiki si confronta con:

  • la storia coloniale giapponese, mai integrata nelle narrazioni spirituali;
  • le nuove religioni, nate dall’incrocio fra buddismo, scintoismo, modernizzazione e trauma bellico;
  • la complessità sociale delle città giapponesi, segnate da diseguaglianze, precarietà, solitudini;
  • il fenomeno hikikomori, la crisi demografica, il senso diffuso di stanchezza culturale del dopoguerra;
  • la presenza di movimenti spirituali molto diversi dal buddismo idealizzato che l’Occidente attribuisce al Giappone.

Da un’altra angolazione, la spiritualità giapponese non è né uniforme né immobile. È un mosaico di ritualità domestiche, culti locali, istituzioni formali, pratiche commerciali, estetiche contemporanee, tensioni fra modernità e tradizione. È un territorio plurale, non un monolite.

Eppure, nell’immaginario Reiki occidentale, questo mosaico si riduce a pochi elementi scelti:
il Monte Kurama, i cinque principi, i templi immersi nella natura, la ritualità come purezza estetica.
Ciò che non corrisponde a questa immagine — ciò che è troppo moderno, troppo politico, troppo urbano, troppo contraddittorio — viene espulso.

La spiritualità giapponese appare allora come deposito di autenticità proprio perché viene sottratta alla storia.
Il Reiki diventa credibile perché viene inserito in uno scenario senza conflitti, mentre tutto ciò che, nel Giappone reale, eccede la nostra ricerca di armonia viene silenziato.

Ma che cosa perdiamo, quando facciamo questo?
Perdiamo la possibilità di considerare il Reiki come una pratica viva, situata, attraversata da negoziazioni culturali e storiche.
Perdiamo la possibilità di incontrare un Giappone reale, non un Giappone funzionale al nostro desiderio di spiritualità.

E soprattutto perdiamo la possibilità di comprendere noi stessi.
Perché il Giappone che scegliamo di non vedere è sempre un modo per non vedere qualcosa di noi: la nostra modernità inquieta, la nostra ricerca di senso, la nostra nostalgia di ritualità, il nostro bisogno di un altrove che ci consoli e ci trasformi.

La domanda che emerge è dunque doppia: quale Giappone non vediamo, quando immaginiamo il Reiki? E quale parte di noi si nasconde proprio in questa rimozione?

Perché tutto questo conta per la pratica?

A prima vista, questi discorsi potrebbero sembrare lontani dalla quotidianità di una sessione Reiki: le mani che si posano, il respiro che rallenta, l’attenzione che si concentra, il corpo che ascolta.
Ma la pratica non è mai separata dal modo in cui la pensiamo, né dal modo in cui la narriamo. Un gesto, per quanto semplice, è sempre inscritto in un orizzonte di significati. È questo orizzonte che orienta le nostre aspettative, i nostri vissuti, la nostra idea di “energia” e di “cura”.

In altre parole, il modo in cui immaginiamo il Reiki influenza profondamente il modo in cui lo pratichiamo.

Se immaginiamo il Reiki come “sapere giapponese antico”, attribuiamo al gesto una sacralità che non è intrinseca, ma culturalmente prodotta.
Se immaginiamo il Giappone come terra spirituale senza conflitti, ci predisponiamo a vivere il trattamento come esperienza di purezza, centratura, armonia, anche quando ciò che emerge nel corpo è ambivalente, complesso, dissonante.
Se immaginiamo Usui come un maestro isolato e illuminato, potremmo trascurare la dimensione collettiva, storica, situata della sua ricerca.

Da un’altra prospettiva, tutto questo non rende la pratica meno efficace.
La rende semplicemente più consapevole.

La critica all’orientalismo non riduce il valore del Reiki.
Anzi, permette di radicarlo in un terreno più ampio, meno fragile, meno dipendente da miti di autenticità che possono crollare quando emergono nuove ricerche storiche, nuovi documenti, nuove prospettive (si pensi ai dibattiti contemporanei su Usui/Yokoi, alla ricostruzione genealogica di Stein, o alle pratiche interne allo stesso Giappone contemporaneo).

Il punto non è smitizzare il Reiki.
Il punto è comprenderne la posizione dentro un intreccio di poteri discorsivi, rappresentazioni culturali, desideri condivisi.

Quando riconosciamo questo intreccio:

  • il Reiki smette di essere un’eredità mistica, e diventa una pratica relazionale;
  • il Giappone smette di essere un altare, e diventa un interlocutore;
  • la spiritualità smette di essere un altrove, e torna a essere un modo di abitare il presente.

Perché, in fondo, la vera domanda non è se il Reiki sia “giapponese”, ma:
che cosa accade quando un gesto nato in un contesto culturale viene accolto, trasformato, reinterpretato in un altro?
E che cosa accade quando riconosciamo che questo gesto non è mai neutro, ma sempre situato dentro corpi, storie, desideri?

In questo senso, comprendere il soft power, l’orientalismo e l’auto-orientalismo non è un esercizio accademico separato dalla pratica. È un modo di rendere la pratica più libera: più consapevole di ciò che eredita e di ciò che trasforma, più attenta alle immagini che riproduce, più capace di restituire al Reiki la sua dimensione più preziosa — quella che non riguarda il Giappone come luogo mitico, ma l’essere umano come corpo che sente, che si apre, che si interroga.

Verso una pratica situata, non esotizzante

Riconoscere il funzionamento degli immaginari che attraversano il Reiki non significa sottrarre poesia alla pratica. Significa, piuttosto, restituirle la sua profondità. Una pratica è situata quando non si nasconde dietro narrazioni idealizzate, ma accoglie la complessità culturale da cui proviene e quella del contesto in cui prende forma.

Il Reiki, in Italia, può allora diventare un laboratorio di consapevolezza interculturale: non un’esperienza che ripete stereotipi sul Giappone, ma un’esperienza che osserva come quei medesimi stereotipi agiscano sul corpo, sulle aspettative, sulle relazioni tra insegnante e praticante.

In altre parole, una pratica situata è una pratica che non si limita a “prendere” dal Giappone:

  • si interroga sul modo in cui quel Giappone è stato costruito;
  • riconosce la selezione culturale che ha reso alcune immagini più visibili di altre;
  •  problematizza l’idea stessa di autenticità, intesa come origine incontaminata o essenza eterna;
  • accoglie la possibilità che anche la spiritualità sia una costruzione storica, e che proprio per questo sia viva, fragile, aperta.

Miyake invita a comprendere come ogni discorso sul Giappone — anche i più benevoli — partecipi alla riproduzione di una geografia immaginaria essenzializzante. Una pratica non esotizzante non rifiuta questa geografia, ma la rende visibile; non la abolisce, ma la attraversa con cura.

Da un’altra angolazione, questo implica accettare che il Reiki non è una finestra trasparente sul Giappone, ma un prisma: ciò che vediamo dipende dall’angolo da cui guardiamo.
Una pratica situata riconosce questo prisma, lo studia, lo interroga, lo include nella propria riflessività.

E questo non sottrae nulla al valore del Reiki.
Al contrario: lo libera dal peso di dover essere un “sapere antico e puro”; gli permette di diventare una pratica di attenzione più che una pratica di autenticità, un’arte del sentire più che un’arte del ripetere.
Il Reiki può così smettere di essere un ponte verso un altrove idealizzato e diventare un modo di radicarsi più profondamente nella propria esperienza, qui e ora, senza rinnegare l’intreccio culturale da cui è emerso.

Il Reiki non deve più salvare il Giappone dall’occidentalizzazione, né salvare l’Occidente dalla propria modernità.
Può limitarsi a ciò che fa meglio: creare condizioni di incontro, generare spazi di cura, far emergere consapevolezza, invitare a guardare ciò che abitiamo senza rifugiarci in ciò che immaginiamo.

Una chiusura fenomenologica: un altro modo di incontrare il Giappone

Arrivando alla fine di questo percorso, l’immagine del Giappone non si dissolve; si trasforma. Non è più un fondale spirituale, né un oggetto esotico da consumare. È uno spazio relazionale che si apre ogni volta che pratichiamo Reiki, ma solo se siamo disposti a riconoscere il peso delle immagini che ci abitano e delle storie che ripetiamo.

Una chiusura fenomenologica non può che partire dal corpo.
Perché la pratica — al di là dei discorsi, delle genealogie, delle rappresentazioni — prende forma lì: nel calore che passa tra le mani, nel ritmo del respiro, nella quiete che emerge lentamente quando l’attenzione si fa più precisa, più porosa, più presente.

In quel momento, ciò che chiamiamo “Giappone” non è più un paese lontano, ma un orizzonte simbolico che si deposita nei nostri gesti. È un luogo che non abitiamo geograficamente ma che attraversiamo attraverso immagini, racconti, storie, desideri.
E tuttavia, proprio perché il Giappone del Reiki è un luogo immaginato, possiamo imparare a incontrarlo diversamente: non come essenza, ma come relazione.

Da un’altra angolazione, questo incontro non richiede di cancellare l’immaginario, ma di illuminarlo.
Significa comprendere che ogni volta che appoggiamo le mani, appoggiamo anche secoli di rappresentazioni dell’Oriente; significa riconoscere che il nostro corpo non è mai un corpo neutro, ma un corpo situato dentro storie culturali che lo precedono; significa accettare che la spiritualità non è mai pura, ma sempre intrecciata a poteri, simboli, narrazioni.

E tuttavia — ed è qui che il Reiki riacquista la sua forza — la pratica ci offre una via d’uscita.
Non una fuga verso un Giappone immaginato, ma un ritorno a noi stessi attraverso la consapevolezza delle immagini che ci attraversano.
L’incontro con il Giappone può allora diventare un incontro non con un altrove mitico, ma con il modo in cui i nostri corpi fanno esperienza dell’altrove: una forma di conoscenza incarnata, fragile, aperta, situata.

Il Reiki, in questo senso, non è un viaggio verso il Giappone, ma un viaggio attraverso il Giappone che abbiamo costruito — per poi superarlo, attraversarlo, lasciarlo andare.
E nel lasciare andare l’immagine, forse accade qualcosa di più semplice e più reale:
un gesto che incontra un corpo, una presenza che incontra un’altra presenza, una pratica che non ha più bisogno di miti per essere viva.

Il Giappone, allora, torna a essere ciò che è sempre stato: non un altare, ma un interlocutore.
E il Reiki torna a essere ciò che può davvero diventare: un modo per ascoltare più a fondo, non il Giappone, ma noi stessi in relazione al mondo.

Mini-Glossario


Soft power
Termine coniato da Joseph Nye per descrivere la capacità di uno Stato di esercitare influenza nel mondo non attraverso la forza, ma attraverso l’attrattività culturale: media, estetiche, prodotti, immaginari. Nel caso del Giappone, anime, manga, design, spiritualità e turismo contribuiscono a modellare un “desiderio di Giappone” che influisce anche sulla ricezione del Reiki.


Orientalismo
Nel senso reso celebre da Edward Said, è l’insieme dei discorsi attraverso cui l’Occidente ha rappresentato l’Oriente come diverso, esotico, spirituale, primitivo o esteticamente superiore. Una struttura di pensiero che produce immagini più che descrizioni e che condiziona profondamente l’immaginario europeo sul Giappone.


Orientalismo “positivo”
Forma benevola ma altrettanto stereotipata dell’orientalismo, che idealizza l’Oriente come custode di purezza, armonia, spiritualità e autenticità perdute. È una delle lenti con cui il Reiki giunge in Europa, trasformando il Giappone in un altrove salvifico.


Doppio orientalismo
Concetto elaborato da Toshio Miyake: il Giappone viene alternatamente rappresentato come iper-tradizionale (spiritualità, natura, ritualità) oppure iper-moderno (tecnologie, futurismo, alienazione). Due poli opposti ma complementari che mantengono il Giappone in uno stato permanente di alterità.


Auto-orientalismo
Processo attraverso cui il Giappone stesso interiorizza lo sguardo occidentale e lo utilizza per rappresentarsi. Tradizione, spiritualità e semplicità diventano risorse simboliche da offrire a un Occidente che le desidera, con effetti diretti sulla diffusione di pratiche come il Reiki.


Geografia immaginaria
L’insieme delle rappresentazioni, aspettative e narrazioni che definiscono ciò che l’Occidente “vede” quando immagina il Giappone. Non una mappa della realtà, ma un paesaggio simbolico, costruito storicamente, che orienta anche il modo di interpretare il Reiki.


Reiki “giapponese”
Espressione che, nel discorso occidentale, indica un modello idealizzato del Reiki come pratica antica, pura, immutabile e radicata in un Giappone spiritualizzato. Una costruzione culturale che spesso non coincide con la storia reale e plurale della pratica.


Pratica situata
Modalità di praticare il Reiki riconoscendo il contesto culturale in cui esso prende forma e la natura storica delle immagini che vi circolano. Significa integrare riflessività, attenzione e consapevolezza critica nella relazione tra corpo, gesto e immaginario.

Bibliografia

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Miyake, T. (2018). Il Giappone made in Italy: antropologia dell’immaginario italiano sul Giappone (1860–2018). In: Orizzonti giapponesi, pp. 607-627 (dicembre 2018).

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L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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