Reiki in azienda: ridurre lo stress e migliorare presenza e attenzione sul lavoro

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

Persona seduta alla scrivania in un ufficio luminoso, con una mano sul petto e l’altra sul basso ventre in un gesto di auto-centratura.



In questo articolo provo a raccontare cosa significa portare il Reiki in azienda in chiave laica e corporea,
come pratica di auto-trattamento che si intreccia con i ritmi reali del lavoro invece di aggiungere un altro impegno in agenda.
Parlo di stress, di corpi che si irrigidiscono nelle riunioni, di micro-pratiche che non bloccano il flusso ma aprono piccole soglie di respiro.
Una proposta pensata per team, manager e professionisti che desiderano lavorare con più presenza, senza spiritualismi e senza scorciatoie.

Perché oggi si parla di Reiki in azienda: stress, ritmo e attenzione

Quando penso al mondo del lavoro contemporaneo, ciò che immagino per prima cosa non sono i task o le scadenze, ma i corpi che li attraversano. Spalle leggermente sollevate, mascelle contratte, respiri trattenuti. È come se la giornata lavorativa producesse un rumore di fondo che si deposita nei gesti, nei volti, nei modi in cui ci si siede a una riunione o si risponde a un messaggio. Lo stress non è un concetto astratto: è una postura, un ritmo, una modalità di presenza che, a un certo punto, prende forma nel corpo.

Negli ultimi anni questo ritmo si è trasformato profondamente. Non è tanto la quantità di lavoro a generare pressione, quanto la frammentazione: notifiche continue, passaggi rapidi da un compito all’altro, riunioni senza pause intermedie. La mente accelera, il corpo tenta di starle dietro, e spesso non ci riesce. Molte persone descrivono la loro esperienza come un “troppo pieno” che non si svuota mai davvero: la testa che gira su se stessa, la bocca dello stomaco che si chiude, il respiro che si accorcia. È un linguaggio del corpo, prima ancora che un problema psicologico.

In questo scenario, parlare di Reiki in azienda significa fare un passo laterale e rivolgere l’attenzione a ciò che spesso passa sotto silenzio: come stiamo mentre lavoriamo? Che forma prende lo stress nel corpo? E che effetto ha sulla qualità delle nostre decisioni, delle relazioni, delle conversazioni quotidiane?

Non si tratta di proporre soluzioni magiche né di aggiungere un ulteriore impegno all’agenda, già densa. Si tratta, piuttosto, di immaginare che nella giornata possano esistere micro-soglie di respiro: momenti brevi in cui tornare al corpo, un tocco leggero su una parte contratta, un respiro più ampio, un gesto che interrompa l’automatismo della reattività.

Il Reiki, pensato in modo laico e corporeo, non porta con sé simboli o cosmologie: porta una possibilità. Quella di restituire alla persona un modo più abitabile di stare nel proprio corpo mentre affronta il ritmo del lavoro. Una pratica breve che non chiede tempo, ma attenzione; non chiede di isolarsi, ma di rientrare, anche solo per pochi secondi, in un ritmo che permetta di vedere ciò che accade con maggiore chiarezza.

In fondo, lo stress non è un errore individuale né un destino inevitabile. È un’esperienza che attraversa i muscoli, il respiro, la postura — e che può essere regolata se troviamo il gesto giusto, il respiro giusto, il contatto giusto.
Il Reiki, nella sua semplicità, offre proprio questo: una piccola soglia di ritorno a sé. Una pausa che non interrompe il lavoro, ma lo rende più umano.

Che cos’è il Reiki in chiave laica e perché è adatto al lavoro

Quando parlo di Reiki in azienda, accade spesso che qualcuno immagini subito qualcosa di distante dal lavoro: simboli, rituali, un immaginario mistico che non appartiene né agli uffici né ai ritmi delle organizzazioni. In realtà, il Reiki che porto nei team è l’esatto contrario. È una pratica laica, essenziale, radicata nel corpo e libera da ogni sovrastruttura spiritualista.
È un modo per tornare, con semplicità, a quella dimensione di presenza che spesso perdiamo mentre lavoriamo.

Il Reiki, nella sua forma più semplice, non chiede di credere in nulla. Non richiede visualizzazioni, mantra o tecniche complesse. È un gesto di attenzione incarnata: le mani che incontrano la testa, il petto, la bocca dello stomaco, il basso ventre. Zone che conoscono bene il peso della pressione, dei pensieri che si accavallano, delle scadenze che stringono.
È una pratica che nasce dal corpo e al corpo ritorna.

Per questo può entrare nei luoghi di lavoro senza creare fratture. Non interrompe, non pretende di cambiare l’intera cultura aziendale, non chiede di “fare spazio” come se fosse un evento straordinario. Si inserisce, piuttosto, nelle pieghe della giornata: un minuto prima di una riunione impegnativa, qualche respiro alla scrivania dopo un’email difficile, un gesto di riorientamento quando la mente inizia a correre.

Il Reiki, in chiave laica, è una tecnologia dell’attenzione: restituisce al corpo una forma di calma che permette alla mente di vedere con maggiore lucidità. Non elimina lo stress — nessuna pratica lo fa — ma aiuta a regolarlo, a non farsene travolgere, a ritrovare un punto di appoggio interno nei momenti di intensità.

In contesti dove le parole sono molte e il tempo è poco, la forza del Reiki sta proprio nella sua semplicità. Non richiede energia mentale aggiuntiva, non è un esercizio cognitivo, non è un massaggio. È un modo di stare nel corpo con più consapevolezza, e di portare questa qualità anche nella relazione con i colleghi, nei processi decisionali, nelle conversazioni che spesso si complicano perché arriviamo all’altro già contratti, già stanchi, già in apnea.

Per questo il Reiki è adatto al lavoro: perché non è qualcosa “in più”, ma qualcosa che permette di abitare meglio ciò che già facciamo.
Un gesto che riduce la distanza tra la persona e il suo ritmo.
Una pausa che non allontana dal lavoro, ma riporta dentro di esso, con maggiore presenza.

L’auto-trattamento: la forza di una micro-pratica che non blocca il flusso lavorativo

Una delle domande che mi viene posta più spesso è: “Ma come faccio a praticare Reiki mentre lavoro?”
La verità è che il Reiki, nella sua forma di auto-trattamento, non è un’attività da ritagliare, non richiede un luogo isolato né un tempo separato dal resto. La sua forza sta proprio nel fatto che può vivere dentro la giornata, senza rallentarla, senza chiedere permessi speciali.

Penso ai momenti in cui la mente corre troppo veloce, o quando il corpo manda un segnale preciso — un peso sulla fronte, un nodo nello stomaco, un’irrigidimento del petto. Sono istanti brevissimi, ma se impariamo a riconoscerli diventano porte di accesso.
Basta un gesto, una mano posata con attenzione, un respiro che si allunga di un paio di secondi. Non cambia il mondo fuori, ma cambia la possibilità di starci dentro.

L’auto-trattamento non ha nulla di spettacolare. È discreto, silenzioso, quasi invisibile. Può accadere alla scrivania, in una sala riunioni prima che gli altri entrino, in un corridoio mentre aspettiamo una telefonata. Non chiede di “staccare”, ma di ricollegarsi — al corpo, al ritmo, a una forma di presenza più ampia di quella che il lavoro tende a richiederci.

Nelle aziende spesso si immagina che il benessere coincida con interventi strutturati, programmi complessi, training cognitivi impegnativi.
Il Reiki, invece, funziona perché è leggero: non pesa sulla mente già affaticata, non chiede energia, non chiede performance.
Lavora proprio lì dove il lavoro stringe di più: nella reattività, nelle tensioni che salgono senza che ce ne accorgiamo, nella sensazione di non avere più spazio.

L’auto-trattamento è un modo per riaprire questo spazio.
Non un riposo, ma una soglia.
Una piccola riorganizzazione interna che permette al lavoro di continuare senza trascinarci con sé.

E dentro questa soglia — breve, quotidiana, possibile — accade qualcosa di semplice e sorprendente: il corpo smette di rincorrere la mente e trova un appoggio. Da lì, tutto il resto scorre in modo diverso.

Reiki, mindfulness e massaggio: tre modalità diverse per stare nello stress

Quando si parla di benessere sul lavoro, spesso emergono tre parole: mindfulness, massaggio, Reiki.
Sono tre strade molto diverse, che condividono un’intenzione — ridurre la pressione, recuperare presenza — ma lo fanno attraverso linguaggi e corpi differenti. Capire queste differenze aiuta a scegliere, senza confusione e senza aspettarsi da una pratica ciò che appartiene a un’altra.

La mindfulness chiede un movimento interno: dirigere l’attenzione, lasciarla sedimentare, osservare i pensieri senza farsi trascinare. È una pratica preziosa, ma richiede una disponibilità mentale che non tutti riescono a trovare nei momenti di maggiore carico. Quando la mente è già satura, sedersi a “gestire la mente” può diventare un gesto troppo grande: come se chiedessimo a chi sta correndo di mettersi a riflettere sul proprio respiro mentre ancora non riesce a fermarsi.

Il massaggio, al contrario, è un ingresso diretto nel corpo. Scioglie, rilassa, alleggerisce. Ha un effetto profondo ma ha bisogno di tempo, di uno spazio dedicato, di un contesto che lo renda possibile. È un incontro a sé, un altrove rispetto alla giornata di lavoro. Bello, utile — ma non sempre praticabile “dentro” il ritmo dell’ufficio.

Il Reiki, nella sua forma di auto-trattamento, abita un territorio diverso. Non chiede alla mente di diventare più brava a pensarsi, e non necessita di un operatore che intervenga dall’esterno. È un gesto minimo, quasi quotidiano, che nasce dal corpo e al corpo ritorna. Una mano che scende, un respiro che si apre, una zona che si ammorbidisce.
È una pratica che non aggiunge peso alla mente già sovraccarica, e non crea una parentesi estranea al lavoro: si intreccia con ciò che stiamo facendo, come una piccola regolazione di traiettoria mentre continuiamo a camminare.

Se la mindfulness chiede presenza mentale e il massaggio offre sollievo corporeo attraverso un intervento esterno, il Reiki crea un ponte tra le due dimensioni: un modo per lasciare che il corpo riorienti la mente, invece di chiedere alla mente di rimettere a posto il corpo.
È un gesto che alleggerisce senza interrompere, che restituisce un ritmo più umano senza togliere tempo, che permette di continuare a lavorare con maggiore chiarezza.

Per questo, nei luoghi di lavoro, il Reiki trova un posto naturale: non come alternativa alle altre pratiche, ma come compagno discreto, un modo semplice per ricordarci che possiamo attraversare lo stress senza esserne travolti, un gesto dopo l’altro.

Il contributo del mio libro Combatti lo stress con il Reiki

Quando ho iniziato a scrivere Combatti lo stress con il Reiki, non avevo in mente di aggiungere un altro libro sul benessere. Avevo piuttosto l’impressione che mancasse uno spazio in cui parlare del Reiki in modo sobrio, laico, vicino alla vita reale delle persone: non un sistema da imparare, ma un linguaggio corporeo da abitare.
Perché lo stress, prima ancora di essere una parola, è un’esperienza che attraversa la carne: si contrae nello stomaco, si infila nel respiro, prende spazio tra le scapole. E serve un modo per entrarci senza esserne schiacciati.

Il libro è nato da lì: da anni in cui ho osservato come, nelle sedute individuali e nei percorsi di formazione, le persone arrivassero con il corpo già contratto, con la mente piena e con il desiderio di ritrovare un frammento di spazio interno.
Ho capito che ciò che serviva non era aggiungere informazioni, ma togliere: semplificare, rendere accessibile, mostrare come anche un gesto minimo potesse aprire una crepa nella pressione del quotidiano.

Combatti lo stress con il Reiki è il tentativo di restituire questa semplicità senza banalizzarla.
Racconto micro-pratiche, piccole soglie di attenzione, modi in cui una mano appoggiata alla testa o al petto può cambiare la qualità di un momento.
Ma soprattutto racconto un modo di guardare allo stress che non colpevolizza, non spiritualizza e non psicologizza troppo: lo riconosce come esperienza incarnata, culturale, situata.

È da questo lavoro che nasce anche l’idea di portare il Reiki nei luoghi di lavoro.
Le aziende non hanno bisogno di filosofie astratte, ma di strumenti che funzionino quando serve, senza appesantire.
E il libro è diventato, poco alla volta, il fondamento teorico e pratico di questo progetto: una base chiara, solida, che permette di tradurre il Reiki in un linguaggio compatibile con i ritmi delle organizzazioni, senza snaturarlo.

In fondo, ogni persona che lavora porta con sé un corpo che sente, che reagisce, che chiede spazio.
Il libro ha cercato di dare voce a questo corpo.
Il Reiki in azienda prova a restituirgli una possibilità concreta.

Cosa succede quando si porta il corpo nella vita lavorativa

C’è un paradosso evidente nei luoghi di lavoro contemporanei: chiedono lucidità, ascolto, capacità di decisione, ma spesso ignorano l’unico strumento che rende possibili queste qualità — il corpo.
Non per cattiva volontà: è che abbiamo imparato a pensare il lavoro come un territorio mentale, fatto di idee, parole, strategie, procedure.
E nel frattempo il corpo resta sullo sfondo, come se avesse poco da dire.

Eppure è proprio il corpo che registra per primo ciò che accade: la tensione che sale in una riunione complessa, il nodo allo stomaco quando ci sentiamo sotto pressione, il respiro che si accorcia mentre passiamo da una call all’altra, la postura che si fa rigida quando stiamo difendendo una posizione.
Il corpo non mente. Non argomenta. Non negozia.
Parla attraverso segnali che spesso non ascoltiamo, e quando non li ascoltiamo diventano reattività.

Portare il corpo nella vita lavorativa non significa fare ginnastica o “prendersi un momento per sé”. Significa riconoscere che ogni decisione, ogni conversazione, ogni gesto professionale è incarnato: si appoggia su una certa postura interna, su un tono fisiologico, su una qualità dell’attenzione che non nasce dal nulla, ma dal modo in cui siamo presenti nel nostro corpo.

Quando introduciamo anche solo una piccola pratica corporea — un gesto di auto-trattamento, un respiro più ampio, una mano che si appoggia su una zona contratta — qualcosa cambia immediatamente. Non cambia il problema, cambia l’angolo da cui lo guardiamo.
Il corpo smette di essere una zavorra da portare in ufficio e diventa una risorsa.
Un centro di gravità che può stabilizzare, rallentare, chiarire.

In antropologia si parla di embodiment, il modo in cui viviamo il mondo non solo con la mente, ma attraverso la carne.
Quando lo portiamo nel lavoro, l’embodiment diventa competenza: capacità di sentire quando la tensione sta salendo, di regolare il respiro prima di rispondere, di riconoscere che la reattività non è carattere, ma fisiologia.
È un modo diverso di abitare la giornata, più vicino alla presenza che alla sopravvivenza.

Il Reiki, in questa prospettiva, non è un’aggiunta al lavoro: è una piccola infrastruttura interna che permette a chi lavora di tornare ad ascoltarsi mentre agisce.
E quando il corpo è meno contratto, tutto il resto — le parole, le decisioni, le relazioni — trova una strada più semplice.

Il metodo My Reiki: un approccio laico, rigoroso e unico in Italia

Quando ho iniziato a insegnare Reiki, mi sono reso conto che ciò che mancava non era la tecnica, ma un linguaggio capace di restituire la pratica alla sua profondità corporea, senza derive esoteriche né semplificazioni commerciali. Da questa intuizione è nato il metodo My Reiki: un modo sobrio, chiaro e culturalmente consapevole di avvicinarsi al Reiki, che negli anni è diventato il filo rosso del mio lavoro.

Il metodo My Reiki non è una “variante” della pratica, ma un modo di renderla abitabile a persone che vivono ritmi complessi, che lavorano in contesti ad alta intensità, che hanno bisogno di strumenti immediati e non di sistemi da decodificare.
È un approccio laico, centrato sul corpo e sulla relazione, che prende sul serio sia la dimensione fisiologica dello stress, sia la dimensione culturale che lo sostiene.

Questa struttura — semplice in superficie, rigorosa nelle fondamenta — si basa su tre pilastri:

1. Laicità e chiarezza

Nessuna cosmologia, nessun ritualismo.
Il Reiki viene restituito alla sua forma più essenziale: un gesto di presenza, un contatto che regola, una micro-pratica che restituisce spazio alla persona nel momento in cui ne ha più bisogno.

2. Ricerca antropologica e sensibilità culturale

La mia formazione in antropologia della salute ha trasformato il modo in cui guardo alla pratica: ogni gesto corporeo è anche un gesto culturale.
Portare il Reiki in azienda significa quindi tradurlo, senza snaturarlo, in un linguaggio che rispetta i contesti organizzativi, la loro etica, i loro ritmi, la loro complessità.

3. Esperienza diretta con i corpi delle persone

Ogni anno incontro centinaia di persone in trattamenti e formazione.
Il metodo My Reiki nasce da lì: dal modo in cui lo stress si annida nelle spalle, nello stomaco, nelle tempie; da come il corpo racconta la giornata prima ancora che inizino le parole.
È un metodo costruito sulla pratica viva, non sulle idee.

Per questo, nel panorama italiano, il Reiki portato nei luoghi di lavoro secondo questa prospettiva è qualcosa di raro.
Non un adattamento di una tecnica, ma una traduzione culturale: un modo per permettere alle persone di utilizzare il Reiki non come qualcosa “in più”, ma come strumento che si intreccia con il ritmo del lavoro, sostenendo attenzione, presenza, qualità delle relazioni.

Il metodo My Reiki non vuole convincere: vuole offrire un’esperienza.
Una soglia in cui il corpo può respirare di nuovo, e da cui il lavoro riprende una forma più umana.

Perché introdurre micro-pratiche corporee migliora team e organizzazioni

Quando un’organizzazione decide di introdurre micro-pratiche corporee, spesso parte da un’intuizione semplice: che lo stress non riguarda soltanto i singoli individui, ma la trama relazionale che tiene insieme i team.
Lo si vede nelle riunioni che diventano più tese del necessario, nei messaggi scritti di fretta, nella difficoltà a restare presenti quando il ritmo accelera.
Il corpo, quando è contratto, non riguarda solo chi lo abita: influisce sul modo in cui ci rivolgiamo agli altri, sul tono delle nostre parole, sulla disponibilità ad ascoltare.

Le micro-pratiche corporee, se introdotte con delicatezza, aprono un varco in questo circuito.
Non risolvono i problemi organizzativi, non sostituiscono la leadership né i processi, ma modificano la qualità interna con cui li attraversiamo.
Una persona che riesce a rallentare per pochi secondi, a sentire il proprio respiro, a sciogliere una tensione viscerale, porta nel team una presenza diversa — meno reattiva, più abitabile.

E questo cambia tutto.

Un team che sa riorientarsi quando la pressione sale non diventa miracolosamente perfetto; diventa, più semplicemente, più capace di stare insieme.
Le conversazioni si alleggeriscono, lo spazio di ascolto si allarga, le decisioni si prendono con meno fretta e più chiarezza. Non perché i problemi siano scomparsi, ma perché è cambiato il corpo che li guarda.

Le aziende spesso cercano soluzioni complesse per affrontare lo stress: programmi articolati, interventi psicologici, strumenti digitali.
Tutto utile, tutto prezioso.
Ma a volte servirebbe solo che il corpo avesse un luogo per respirare.

Le micro-pratiche corporee non sono una parentesi wellness: sono una forma di igiene dell’attenzione.
Un modo per ricordare che, prima delle competenze, c’è un sistema nervoso che decide quanto siamo disponibili a cooperare; che, prima delle strategie, c’è un respiro che decide quanta chiarezza possiamo portare in una riunione; che, prima dei KPI, ci sono corpi che oscillano, si contraggono, si aprono.

Introdurre queste pratiche significa offrire alle persone un modo per tornare a sé mentre lavorano.
E quando questo accade, il lavoro cambia tono: diventa più lento dove serve essere lenti, più preciso dove serve precisione, più umano dove serve umanità.

Non è un cambiamento appariscente.
È un cambiamento di qualità.
E nelle organizzazioni che vivono di relazioni, di conversazioni e di decisioni continue, la qualità fa la differenza.

Come funziona il corso Reiki in azienda

Quando entro in azienda per una giornata di formazione, porto con me un’idea semplice: creare uno spazio in cui il corpo possa tornare a essere ascoltato, senza interrompere il ritmo del lavoro, senza chiedere alle persone di diventare qualcosa che non sono.
Il corso è una giornata intensiva di 6 ore, dove teoria e pratica si intrecciano con naturalezza, come in un respiro che si dilata e si restringe.

La mattina inizia sempre con l’ascolto: non un ascolto psicologico, ma corporeo.
Chiedo alle persone come stanno, ma soprattutto osservo come si siedono, come respirano, come rispondono ai primi stimoli. È da lì che si parte: dalla percezione del proprio livello di stress, dai segnali che il corpo manda senza clamore ma con precisione.

Poi introduco il Reiki, non come tecnica misteriosa, ma come linguaggio corporeo. Racconto la sua genealogia, da dove arriva, come è cambiato negli anni, e soprattutto come può essere restituito in forma laica e accessibile, senza simboli, senza dogmi, senza sovrastrutture. È un passaggio importante, perché permette a chi ascolta di situare la pratica in un orizzonte reale, concreto, che non richiede credenze né appartenenze.

La giornata prosegue alternando momenti di esplorazione corporea — respiro, postura, micro-tensioni — a piccole esperienze guidate.
Non si tratta di “fare esercizi”, ma di lasciarsi attraversare da gesti semplici: un tocco sul petto, una mano sulla testa, la percezione della bocca dello stomaco che si rilassa, il basso ventre che si ammorbidisce.
Sono movimenti minimi, ma aprono un varco: la persona scopre di poter intervenire sul proprio stato interno senza allontanarsi dal lavoro.

C’è poi una parte dedicata alla relazione.
Lavorare in coppia, o in piccolo gruppo, permette di ascoltare qualcosa di invisibile: il tono dell’altro, la sua reattività, il suo ritmo.
Il Reiki, qui, diventa un modo per incontrarsi, non per fare terapia.
È un’esperienza che cambia il modo di parlare, di rispondere, di restare presenti durante le conversazioni difficili.

Verso il pomeriggio, introduco la sequenza breve di auto-trattamento “da scrivania”: non una tecnica da imparare, ma una pratica da integrare.
La domanda che guida questo momento è sempre la stessa:
“Come posso prendermi cura di me mentre lavoro, senza interrompere nulla?”
E la risposta prende forma in gesti che ciascuno può ripetere autonomamente, nei momenti critici della giornata, senza che nessuno se ne accorga.

La chiusura è un momento delicato: un debrief collettivo, un ricomporre ciò che è accaduto.
Qui emergono parole, sensazioni, immagini.
Non valuto nessuno, non misuro, non classifico: semplicemente raccolgo ciò che il corpo ha lasciato emergere durante la giornata.
In quel punto si capisce sempre che il corso non è stato “un’esperienza”, ma una soglia: qualcosa che continua nella quotidianità delle persone, nei loro gesti, nei loro ritmi, nelle loro relazioni.

Perché l’obiettivo non è che il Reiki entri in azienda.
L’obiettivo è che le persone possano tornare a sé, anche mentre lavorano.

Per chi è pensato

Il Reiki in azienda non è un percorso per specialisti, né un’esperienza riservata a chi già conosce il mondo delle pratiche corporee. È pensato per chiunque lavori in contesti in cui il ritmo, le relazioni e la responsabilità chiedono al corpo più di quanto ci accorgiamo.

È adatto ai team operativi, che vivono la pressione dei tempi, delle richieste continue, delle attività da chiudere mentre se ne aprono altre.
Persone che spesso, prima ancora di renderlo esplicito, portano sulle spalle un peso fatto di concentrazione forzata e di respiro trattenuto.

È adatto ai professionisti ad alta soglia di stress, quelli che attraversano la giornata con la sensazione di essere sempre “un passo avanti”, sempre allineati, sempre pronti a rispondere.
Una forma di vigilanza che il corpo regge per un po’, finché non inizia a chiedere spazio.

È adatto ai manager, a chi guida team e prende decisioni in tempi rapidi.
La leadership non è solo strategia: è tono emotivo, presenza, capacità di ascoltare e ascoltarsi. Un corpo più centrato porta decisioni più lucide, conversazioni meno reattive, un modo diverso di tenere insieme le persone.

È adatto a chi lavora nel customer care, dove la voce, la disponibilità e la presenza sono strumenti quotidiani.
Qui lo stress non è astratto: passa attraverso lo sguardo, attraverso la relazione con l’utente, attraverso la tenuta emotiva nei momenti di difficoltà.

È adatto alle HR, che sentono il ritmo dell’organizzazione come un sismografo: percepiscono micro-tensioni, cambiamenti, bisogni spesso invisibili agli altri.
Per loro il corpo è un alleato che può indicare quando una cultura aziendale sta reggendo, e quando invece sta chiedendo aiuto.

È adatto anche a chi, semplicemente, si accorge che il proprio corpo non riesce più a stare nel ritmo che il lavoro impone.
Non è un segno di debolezza: è lucidità.
La capacità di fermarsi un istante e dire: “Serve un modo diverso di stare qui”.

In realtà, il Reiki in azienda è pensato per tutti coloro che, in mezzo alle aspettative, alle call, ai progetti e alle scadenze, desiderano una cosa semplice: ritrovare un po’ di spazio dentro di sé mentre continuano a fare ciò che fanno ogni giorno.

Quando introdurre il Reiki in azienda: i momenti strategici

Non tutte le aziende vivono gli stessi ritmi, ma esistono momenti in cui il corpo dell’organizzazione cambia respiro. È in queste soglie che introdurre il Reiki diventa particolarmente utile: non per “aggiustare” qualcosa, ma per accompagnare una transizione, per dare al team un appoggio mentre il contesto si muove.

Uno di questi momenti è l’accelerazione dei carichi.
Le settimane in cui tutto sembra addensarsi, in cui le scadenze si moltiplicano e la mente corre senza concedersi pause. Il rischio, in questi periodi, è scivolare nella reattività: risposte rapide, ma non lucide; collaborazioni che si incrinano; errori che nascono più dalla fatica che dall’incompetenza.
Una micro-pratica corporea permette di tenere il timone mentre l’onda si alza.

Un altro momento è quello delle ristrutturazioni interne: cambi di ruolo, nuovi processi, nuove leadership, nuove priorità.
Anche quando il cambiamento è positivo, il corpo lo vive come un’oscillazione.
Il Reiki aiuta a dare continuità e stabilità, a ritrovare un orientamento interno mentre tutto intorno si sposta.

C’è poi la fase, più silenziosa ma forse più frequente, del logoramento progressivo: non un evento, non una crisi, ma una densità che cresce giorno dopo giorno.
Qui il rischio è non accorgersi del livello di tensione fino a quando diventa troppo.
Introdurre pratiche corporee nella quotidianità permette di prevenire, di riconoscere prima del tempo quello che altrimenti esploderebbe all’improvviso.

Momenti strategici sono anche quelli del conflitto latente: non litigi dichiarati, ma corpi che si irrigidiscono quando si entra in riunione, toni che cambiano impercettibilmente, distanza che cresce senza un motivo esplicito.
Una pratica che aiuta a ritrovare presenza e radicamento può sciogliere ciò che la mente non riesce a spiegare.

E poi ci sono le fasi di onboarding: nuovi team, nuove persone, nuovi equilibri.
Il corpo in questi momenti è come un sensore aperto: assorbe, osserva, valuta.
Il Reiki può accompagnare l’ingresso in modo più morbido, meno difensivo, più capace di costruire connessioni sane.

In generale, il momento migliore per introdurre il Reiki è ogni volta che un’organizzazione sente di aver perso — anche solo per un attimo — il proprio respiro.
Ogni volta che qualcuno dice: “Siamo sempre di corsa”, “qui è diventato tutto troppo”, “serve una pausa”.
Ogni volta che un team avverte che la qualità delle relazioni non rispecchia più la qualità delle intenzioni.

Perché il Reiki, in azienda, non nasce per i momenti facili.
Nasce per quei passaggi in cui serve una soglia di ritorno: un modo per ritrovare un punto fermo mentre il resto continua a muoversi.

Il corpo come soglia, il lavoro come spazio da abitare

Alla fine, tutto si riduce a questo: come abitiamo il nostro corpo mentre lavoriamo.
Possiamo attraversare una giornata intera senza mai fermarci a sentire dove siamo, come respiriamo, che effetto ci fanno le parole, gli sguardi, le richieste.
Oppure possiamo, ogni tanto, ritornare.
Aprire un piccolo spazio, una fessura nel ritmo, e lasciare che il corpo si ricomponga.

Il Reiki, nella sua forma più sobria, è questo spazio.
Un gesto, un tocco, un respiro che si allarga.
Una pausa che non interrompe, ma riorienta.
Un modo per ricordare che la presenza non è un concetto: è un’esperienza che si sente nella carne, e che cambia il modo in cui parliamo, decidiamo, collaboriamo.

Quando un’organizzazione sceglie di introdurre pratiche corporee, sceglie in realtà di prendersi cura del proprio ritmo interno.
Non perché tutto diventi semplice, ma perché diventi più abitabile.
Quando le persone respirano meglio, il lavoro respira meglio.
E da questa semplice verità nascono relazioni diverse, decisioni più chiare, team che reggono meglio la complessità.

Se senti che la tua azienda sta vivendo una fase densa, o semplicemente desideri portare un po’ più di spazio nel ritmo quotidiano, puoi leggere la pagina dedicata al progetto Reiki in Azienda.
Lì ho raccolto in forma chiara ciò che questa pratica può offrire ai team, ai manager, alle organizzazioni che desiderano lavorare senza consumarsi.

Perché il lavoro, quando è abitato con presenza, cambia forma.
E anche noi con lui.


Mini-glossario

Reiki (in chiave laica)
Un linguaggio corporeo fatto di presenza, ascolto e tocco leggero. Non richiede credenze, simboli o rituali.
Una micro-pratica che aiuta a regolare il tono fisiologico nei momenti di pressione.

Auto-trattamento
Gesto semplice e discreto — testa, petto, bocca dello stomaco, basso ventre — che permette di riorientare il corpo nei momenti critici della giornata, anche alla scrivania.

Stress percepito
Non solo una condizione mentale, ma un’esperienza incarnata: respiro corto, tensione muscolare, aumento della reattività.
Riconoscerlo precocemente evita l’accumulo e migliora la qualità del lavoro.

Mindful body
Idee e percezioni non nascono nella mente separata dal corpo: l’attenzione è un fenomeno corporeo.
Pratiche di centratura e tocco aiutano a ridurre la reattività e a recuperare lucidità.

Clima emotivo del team
Il modo in cui le persone si incontrano, parlano e collaborano.
Micro-pratiche corporee migliorano questo clima riducendo tensioni sottili e rigidità relazionali.

Centratura
Condizione fisiologica in cui il corpo si stabilizza e la mente diventa più chiara.
Una risorsa preziosa nei momenti di conflitto, sovraccarico o decisioni importanti.

L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

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