Abstract
Nel panorama formativo del Reiki si diffonde sempre più la prassi di offrire corsi gratuiti o a prezzo simbolico a chi ha già ricevuto uno o più livelli in altre scuole. Questo articolo propone una riflessione critica su tale consuetudine, interrogando il suo impatto sul piano pedagogico, simbolico e relazionale. Attraverso un’analisi articolata, si mettono in discussione le logiche dell’accumulo, della gratuità e della “ripartecipazione”, proponendo una pedagogia del ricominciare fondata su lentezza, rigore ed etica della trasmissione. Con un riferimento a Ivan Illich, si suggerisce che disimparare — più che integrare — sia la chiave per restituire profondità e senso alla pratica.
La retorica dell’accoglienza e il rischio della svalutazione formativa
È sempre più frequente, nel panorama delle scuole di Reiki, incontrare offerte che invitano le persone già formate altrove a “ripartecipare” a un corso a titolo gratuito o a prezzo fortemente ridotto. Spesso si tratta di una proposta formulata come gesto di apertura: un segno di accoglienza, una mano tesa a chi, per le ragioni più varie, sente di non aver ricevuto abbastanza nei corsi precedenti. Ma proprio questa retorica dell’accoglienza — così seducente in apparenza — rischia di veicolare un’ambiguità profonda, che riguarda il senso stesso della formazione.
In primo luogo, l’idea stessa di “ripartecipare” presuppone che esista un corso identico, replicabile, neutro. Come se fare Reiki significasse semplicemente acquisire una tecnica — e come se questa tecnica potesse essere appresa ovunque nello stesso modo, con differenze minime, quasi accessorie. La proposta di rifrequentare il primo livello, ad esempio, a titolo gratuito, non tiene conto della differenza radicale che intercorre tra un metodo didattico e un altro, tra un sistema di trasmissione che privilegia il gesto corporeo e uno che si concentra sulle parole, tra una pedagogia fondata sulla relazione e una centrata sull’istruzione.
Questa forma di accoglienza rischia dunque di diventare una scorciatoia: invece di proporre un nuovo inizio, con altri presupposti, si propone una reiterazione. E se il prezzo viene annullato o quasi, a venire svalutato è proprio il percorso che si intende offrire. Una scuola che ha fatto dell’etica della trasmissione uno dei suoi cardini non può ridurre il proprio lavoro a un “corso gratis per chi ha già fatto Reiki”. Non può — senza tradirsi — far passare il messaggio che il proprio insegnamento è compatibile, sommabile o addirittura intercambiabile con qualsiasi altra esperienza precedente.
Accogliere, in un contesto formativo, non significa sempre dire “sì” a tutto ciò che precede. Significa anche offrire uno spazio in cui sospendere ciò che si è appreso finora, metterlo tra parentesi, interrogarsi sulla sua genealogia. In altre parole, accogliere è un atto critico. E se viene svuotato di questo elemento, rischia di diventare solo una forma di marketing spirituale, travestita da generosità.
Apprendimento cumulativo e approccio consumistico alla formazione
Alla base di molte richieste di “ripartecipazione” — e, di riflesso, di molte offerte che la rendono possibile — si annida un’idea profondamente radicata: quella secondo cui imparare significhi accumulare. Più corsi si frequentano, più insegnanti si ascoltano, più “linee” si esplorano, maggiore sarebbe la propria competenza. Come se la pratica potesse essere scomposta in frammenti e poi ricomposta a piacere, come in un collage spirituale da costruire secondo inclinazioni soggettive.
Questo approccio cumulativo riflette un paradigma ben noto: quello della formazione intesa come consumo. Il Reiki, in questa prospettiva, diventa un prodotto tra gli altri, una tappa da aggiungere al proprio curriculum o da confrontare con altre esperienze pregresse. Ma quando una pratica viene trattata come qualcosa da “avere” — un sapere da possedere, una tecnica da collezionare — si perde il suo nucleo trasformativo, che non si lascia ridurre a una somma di moduli.
L’accesso facilitato ai corsi per chi ha già ricevuto attivazioni in altre scuole spesso rinforza proprio questa logica: ti manca “solo” un tassello, vieni a prenderlo da noi. Il linguaggio della completezza o della “integrazione” — molto presente in questo tipo di comunicazione — presuppone che esista una totalità da raggiungere, e che ogni scuola offra un pezzo compatibile con gli altri, come se tutte le pratiche fossero traducibili tra loro, intercambiabili, neutre.
Ma imparare non è accumulare. Imparare è, spesso, disfare. Svuotare. Lasciar cadere certezze, mettere in discussione quello che si è appreso. Iniziare un nuovo percorso, soprattutto se si proviene da altre esperienze, richiede uno spazio per il dubbio, per la sospensione, per il non sapere. È un processo che chiede tempo e che non può essere abbreviato solo perché “si è già fatto Reiki”.
Nel nostro lavoro formativo, preferiamo proporre un’altra via: non un aggiornamento, non una ripetizione, non un’integrazione, ma un nuovo inizio. Un gesto che interrompe la linearità e restituisce al praticante la possibilità di interrogarsi, di rimettersi in gioco, di praticare da un’altra posizione.
Il valore simbolico del prezzo: tra gratuità, responsabilità e desiderio
Nel discorso pubblico sul Reiki — e più in generale sulle pratiche di cura — la questione del prezzo è spesso affrontata con imbarazzo o semplificazioni. Da un lato, chi propone corsi gratuiti o a prezzo simbolico si appella alla “purezza” della tradizione, all’idea che il Reiki non dovrebbe avere un costo, perché è un dono, una forma di amore incondizionato. Dall’altro, chi attribuisce un valore economico alla formazione viene talvolta sospettato di mercificare la pratica, di metterla al servizio del profitto.
Ma questa contrapposizione è fuorviante. Il prezzo non è, in sé, né un ostacolo etico né una garanzia di qualità. È piuttosto un segnale, un elemento che partecipa alla costruzione del significato dell’esperienza. In questo senso, proporre un corso a costo zero — o quasi — a chi ha già praticato Reiki altrove, significa anche trasmettere un messaggio: quello secondo cui ciò che si offre non è propriamente un percorso, ma una variante leggera, una ripetizione facilitata. Un contenuto intercambiabile. Un bene a basso valore simbolico.
Un prezzo accessibile, ma non simbolico, permette invece di sostenere una diversa postura. Non tanto “pagare per imparare”, quanto investire nel proprio desiderio di apprendere. Prendere sul serio l’inizio di un cammino, assumerne il peso, riconoscerne il valore. In questo senso, il prezzo diventa parte del patto formativo: non una tassa da versare, ma un gesto che sancisce reciprocità, cura, responsabilità.
Nel nostro approccio, questo si traduce in una scelta precisa: evitare offerte promozionali, gratuità selettive o riduzioni legate al percorso svolto in altre scuole. Chi inizia un cammino con noi è invitato a farlo integralmente, a partire dall’inizio, e a farlo non perché gli manchi qualcosa, ma perché desidera vivere quell’esperienza in una cornice diversa, fondata sulla relazione, sul corpo, sulla riflessione critica.
Il prezzo, in questo contesto, non è il contrario della generosità. Al contrario, è proprio grazie a un patto economico chiaro che possiamo permetterci di accompagnare le persone con tempo, cura e presenza. È anche grazie a quel gesto iniziale — il decidere di esserci, non “per ripetere” ma per ricominciare — che possiamo costruire un ambiente in cui la pratica torni ad avere peso, spessore, significato.
Il posizionamento del praticante e la responsabilità della scuola
Offrire un corso a prezzo ridotto o gratuito a chi ha già frequentato altre formazioni implica anche un’altra assunzione, spesso implicita: quella secondo cui il praticante sia un soggetto neutro, privo di una storia, pronto ad adattarsi a qualunque impostazione pedagogica come se si trattasse semplicemente di “un altro modo” di fare Reiki. Ma ogni pratica porta con sé una genealogia, e ogni corpo che pratica è già attraversato da posture, gesti, immaginari, aspettative. Nessuno ricomincia da zero — e proprio per questo, ogni nuovo inizio richiede un atto consapevole di posizionamento.
Chi ha già ricevuto un primo o secondo livello in altre scuole non arriva “vuoto”, ma abitato da ciò che ha appreso altrove: concezioni del Reiki come energia da canalizzare, come strumento terapeutico, come forza esterna o potere interiore. Porta con sé una grammatica corporea appresa, un lessico spirituale, una visione implicita della guarigione. In molti casi, porta anche un rapporto con la figura del “maestro” — spesso intesa come autorità, altre volte come garante, altre ancora come semplice erogatore di contenuti.
Ecco perché la responsabilità di una scuola non è solo quella di “offrire un corso”, ma di rendere visibile — e discutibile — il proprio posizionamento. Di esplicitare il proprio metodo, le proprie scelte etiche, le visioni del corpo e della cura che struttura. Di dichiarare con chiarezza: non stai tornando a “fare il primo livello”, stai cominciando un altro percorso, dentro un’altra cornice.
Questo implica, per noi, non soltanto una riflessione sul contenuto della formazione, ma anche sul modo in cui essa viene trasmessa. L’insegnamento non è un insieme di nozioni da correggere o aggiornare, ma un processo relazionale, incarnato, situato. E questo processo non può prescindere dal tempo, dall’ascolto, dalla pazienza di decostruire ciò che già si crede di sapere.
Chiedere a chi ha già praticato Reiki altrove di iniziare da capo — senza scorciatoie, senza sconti — non è un atto escludente. Al contrario, è un invito a sospendere le certezze, a restare nel dubbio, a praticare una forma di disapprendimento critico. È un gesto di fiducia nell’altro e nella pratica: perché solo quando si riconosce che ogni inizio è situato si può davvero entrare in una relazione trasformativa.
Per una pedagogia del ricominciare: lentezza, rigore e cornici etiche
Ricominciare non è tornare indietro. È abitare di nuovo un gesto, una postura, un’intenzione — ma da un altro punto di vista. Non si tratta di azzerare l’esperienza, né di disconoscere quanto già vissuto, quanto appreso, quanto ricevuto. Si tratta piuttosto di riconoscere che ogni apprendimento è situato, che ogni forma di sapere è figlia di un contesto, di un metodo, di un’etica. E che cambiare cornice significa rinegoziare il proprio modo di stare nella pratica.
Per questo motivo, nel nostro percorso formativo, non proponiamo “ripetizioni”, né offriamo “integrazioni” a basso costo. Non perché non rispettiamo ciò che viene da altre scuole — al contrario, proprio perché lo rispettiamo abbastanza da non ridurlo a materiale da correggere. E perché rispettiamo anche chi ci sceglie, chiedendogli e offrendogli la possibilità di iniziare davvero. Iniziare da dove si è, ma senza pretendere di sapere già.
Una pedagogia del ricominciare è una pedagogia della lentezza. Si fonda su un tempo disteso, su un’attenzione continua al corpo che pratica, sul rigore della trasmissione e sull’ascolto profondo delle domande implicite che ogni gesto porta con sé. È un accompagnamento che non si limita a “insegnare il Reiki”, ma che invita a problematizzare le rappresentazioni che lo attraversano: che cos’è un trattamento? Che tipo di relazione attiva? Quale idea di benessere sostiene? Quali visioni del corpo, della salute, dell’energia porta con sé?
Solo dentro questo tipo di processo il Reiki può tornare a essere una pratica viva, generativa, trasformativa. E solo se questo processo è sostenuto da una cornice chiara — che non ammicca alla logica della gratuità per attrarre più studenti, ma che costruisce fiducia attraverso la coerenza — diventa possibile condividere un’esperienza formativa profonda.
In altre parole, non si tratta di dire “no” a chi ha già fatto Reiki altrove. Si tratta di dire sì a un’altra possibilità: quella di fermarsi, disimparare, ricominciare. Non per ripetere, ma per praticare da un altro luogo, con un altro sguardo, dentro un’altra relazione.
Conclusione. Disimparare per praticare
Forse, ciò che più ci interroga oggi — in un tempo in cui tutto sembra farsi accessibile, ripetibile, semplificabile — non è tanto come insegnare, ma come disimparare. Come sospendere, nel corpo, nelle parole, nei gesti, l’automatismo dell’accumulo e dell’efficienza; come creare spazi in cui la pratica non si pieghi alla logica della prestazione, né alla promessa implicita di un progresso lineare.
In Deschooling Society, Ivan Illich metteva in guardia contro i sistemi formativi che trasformano l’educazione in un servizio da erogare, spingendo l’individuo a delegare ad altri la propria capacità di apprendere (Illich 1971). L’invito di Illich non era alla disorganizzazione, ma a una forma di responsabilità più profonda: sottrarre l’apprendimento alla logica istituzionale per restituirlo alla relazione, al desiderio, alla libertà. Se applichiamo questa intuizione alla formazione Reiki, forse possiamo chiederci: cosa accade quando l’iniziazione alla pratica diventa un’offerta tra le altre, una proposta low-cost per chi “ha già fatto”? Che tipo di esperienza si costruisce quando il corso è concepito come prodotto, e non come soglia?
Lontano dall’idealizzare l’idea di un sapere “puro” o “originario”, ciò che ci interessa è ritrovare un’etica della trasmissione. Un’etica che non separi la tecnica dal corpo che la trasmette, né il contenuto dalla forma in cui si abita. Un’etica che non si fondi sull’offerta, ma sulla presenza. E che non misuri la bontà di un percorso dalla quantità di attestati accumulati, ma dalla qualità delle domande che ci lascia in eredità.
Forse, allora, iniziare un nuovo percorso non significa contraddire ciò che si è appreso altrove. Significa, più radicalmente, riconoscere che ogni inizio è fragile, situato, corporeo. E che solo dentro questa fragilità può emergere uno spazio reale per la pratica.
Concetti chiave / Mini-glossario
Ripartecipazione
Espressione usata per indicare la pratica — sempre più diffusa — di permettere a chi ha già ricevuto il primo livello Reiki in un’altra scuola di “ripetere” il corso gratuitamente o a prezzo simbolico. Nell’articolo si problematizza questa logica, mostrando come possa svalutare l’intero processo formativo.
Approccio cumulativo
Tendenza a vivere la formazione come una somma di esperienze modulari, da accumulare senza una reale messa in discussione di ciò che è stato appreso. È una visione del sapere che tende ad assimilare anziché trasformare, rafforzando logiche consumistiche.
Etica della trasmissione
Impegno a fondare l’insegnamento non solo su contenuti o tecniche, ma su una relazione che tenga conto del corpo, del contesto e delle visioni implicite della cura. Richiede tempo, rigore e responsabilità reciproca.
Prezzo simbolico
Formula utilizzata per offrire un corso a costo molto basso. Se non accompagnata da una riflessione critica, rischia di svuotare la pratica del suo significato trasformativo, riducendola a “prodotto di accesso”.
Disapprendere
Processo di sospensione critica dei saperi precedenti, necessario per aprirsi a nuove prospettive. Implica una disposizione all’ascolto, all’incertezza e alla rinegoziazione del proprio modo di praticare.
Bibliografia
Illich, I. (1971). Deschooling Society. New York: Harper and Row.
Trad. it. Illich, I. (1972). Descolarizzare la società. Milano: Mondadori.