La parola “terapeuta” non è vietata, ma temuta.
Nella cultura contemporanea la biomedicina ha colonizzato non solo la cura, ma anche il linguaggio con cui la pensiamo.
Eppure la terapia, nella sua radice più antica, non riguarda il trattamento del corpo malato: è un gesto relazionale, un atto politico e simbolico di riconciliazione tra corpi, comunità e mondi.
Ripensare il terapeuta significa allora restituire alla cura la sua dimensione incarnata e plurale, decolonizzando le parole che la nominano e ridando valore ai saperi che la abitano.
Le parole, come i corpi, portano i segni delle epoche che attraversano. “Terapeuta” nasce in un mondo lontano, quello greco, dove il verbo therapeúein significava innanzitutto aver cura, servire, onorare il divino attraverso la dedizione. Nella Grecia arcaica il terapeuta non era ancora il tecnico del corpo, ma il custode di una relazione: quella tra la persona e la sfera sacra, tra la malattia e il mistero.
In altre parole, la cura non era un atto, ma un modo di stare nel mondo.
Quando la medicina moderna si è imposta come forma dominante di conoscenza — trasformando la malattia in un oggetto da osservare, classificare, trattare — il termine terapeuta ha subito un lento processo di appropriazione. La sua radice spirituale è stata recintata dal linguaggio biomedico, che ne ha ridefinito il campo semantico: il terapeuta è diventato il “professionista sanitario abilitato a somministrare trattamenti riconosciuti”.
Da allora, usare questa parola fuori dal perimetro medico è come oltrepassare una linea invisibile di confine, un gesto percepito come illegittimo o addirittura pericoloso.
Eppure, se torniamo all’etimologia, therapeúein non rimanda alla tecnica, ma alla relazione: il terapeuta è “colui che serve” — non nel senso servile, ma come atto di presenza devota. È chi accompagna, chi resta accanto, chi onora la fragilità come parte della vita.
Questa accezione si ritrova anche in molte culture extraeuropee, dove la cura è un processo collettivo e spirituale più che una procedura medica. Nelle Ande, ad esempio, il curandero “serve” la comunità attraverso riti di reciprocità con la terra; nello Shingon giapponese, il monaco-terapeuta accompagna la persona in un cammino di purificazione e risonanza energetica; nel sufismo, l’atto terapeutico coincide con il ricordo del divino.
Il linguaggio biomedico, con la sua precisione normativa e il suo apparato istituzionale, ha trasformato la parola terapeuta in una qualifica, mentre un tempo era un gesto di appartenenza. Da termine relazionale si è fatto giuridico; da invocazione comunitaria è diventato titolo professionale. È in questo passaggio che si colloca la colonizzazione linguistica della cura: quando la parola smette di nominare un’esperienza umana per definire una funzione regolata.
Riflettere sul termine terapeuta significa quindi interrogare il potere delle parole di delimitare i mondi. Significa domandarsi chi può “curare” e in che senso, chi decide quali pratiche appartengono alla sfera della salute e quali ne restano ai margini. In un tempo in cui tutto è medicalizzato, restituire pluralità al linguaggio della cura è un atto profondamente politico — e umano.
Il monopolio semantico della biomedicina
La parola *terapeuta* non è soltanto un termine, ma un frammento di storia. Per comprenderne la trasformazione bisogna risalire al momento in cui la cura è diventata oggetto della scienza, e il corpo un dispositivo da misurare. È lì che la medicina moderna ha iniziato a costruire il proprio linguaggio di esclusione, fondato sul binomio mente/corpo e sull’idea di verità oggettiva.
Quando la modernità europea ha inaugurato il suo progetto di conoscenza, la cura ha smesso di appartenere al mondo delle relazioni e dei simboli per entrare in quello delle prove e delle verifiche. È stato un passaggio epocale, che Michel Foucault avrebbe descritto come la nascita di un nuovo regime di verità: quello della clinica.
Nella Naissance de la clinique (1963) Foucault mostra come la medicina moderna non sia semplicemente un insieme di tecniche, ma un modo di vedere, uno sguardo che oggettiva il corpo, lo seziona, lo rende visibile per il sapere e disponibile per il potere. Da quel momento in poi, la malattia diventa una questione di fatti e non più di significati.
Ma a legittimare questa nuova visione del mondo era stato, due secoli prima, il gesto filosofico di René Descartes. Cartesio, nel tentativo di fondare la certezza del sapere, aveva separato radicalmente la res cogitans (la sostanza pensante, la mente) dalla res extensa (la sostanza corporea, lo spazio materiale). Da questa frattura è nata l’idea che il corpo sia una macchina, un meccanismo regolato da leggi misurabili, mentre la mente è il luogo dell’interiorità, dell’intelletto e della coscienza.
Quel dualismo, nato come esigenza epistemologica, è diventato in breve tempo una forma di ontologia culturale: un modo di pensare l’essere umano. La dicotomia mente/corpo si è normalizzata al punto da sembrare naturale, mentre in realtà è un prodotto storico. In altre culture, il corpo non è mai separato dalla mente o dallo spirito, ma ne è la manifestazione incarnata: ciò che in Giappone si esprime con il termine kokoro, che racchiude insieme pensiero, emozione e sensazione.
La scienza moderna, invece, ha costruito la propria legittimità su quella divisione. Ha preteso di liberare la conoscenza dal mito e dal simbolo, definendo come “razionale” solo ciò che può essere quantificato. Il sapere medico è diventato così un sapere esclusivo, in cui l’esperienza soggettiva del dolore o del benessere perde valore se non è traducibile in dati. Da qui l’emergere del monopolio semantico della biomedicina: solo ciò che rientra nel lessico della prova e della diagnosi può essere considerato “cura”.
Questo processo ha avuto conseguenze profonde anche sul linguaggio comune. La parola terapia ha smesso di significare “accompagnamento verso un equilibrio” e si è ristretta fino a coincidere con “intervento sanitario”. Laddove un tempo si parlava di cura dell’anima, di cura di sé o di cura relazionale, oggi l’uso di cura al di fuori dell’ambito medico suona sospetto o improprio. È così che si produce la gerarchia tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è: una gerarchia linguistica prima ancora che istituzionale.
La biomedicina, in questo senso, non è soltanto un insieme di pratiche, ma una macchina semantica che definisce ciò che può essere detto e ciò che deve essere taciuto. Parlare di “terapia energetica” o “cura spirituale” diventa allora un atto politico, perché sfida le regole del linguaggio dominante.
La colonizzazione della parola terapeuta è figlia di questa storia: una storia che ha trasformato la complessità del corpo vissuto in un organismo, la sofferenza in sintomo, e la relazione in procedura.
Da un’altra angolazione, la riflessione su Cartesio mostra quanto profonda sia la radice di questa frattura. Il pensiero dualista ha reso possibile la medicina moderna, ma ha anche imposto un modello di soggettività in cui la guarigione è ridotta a riparazione meccanica. Recuperare la dimensione relazionale e incarnata della cura significa allora non rifiutare la scienza, ma ricordare che essa è solo una delle possibili narrazioni del corpo umano.
Il quadro normativo italiano: tra tutela e ambiguità
Nel 2013 il Parlamento italiano ha varato una legge che riconosce e disciplina le professioni che non appartengono a ordini o collegi. Questa norma – la Legge 14 gennaio 2013, n. 4 – intende garantire libertà di esercizio e trasparenza per una vasta galassia di attività, e al tempo stesso delimita il confine tra benessere e sanità. Per comprendere perché molte discipline olistiche esitino ad usare la parola terapia, occorre guardare da vicino alcuni passaggi testuali della legge e di un successivo documento ministeriale.
L’articolo 1 della legge definisce che cosa si intenda per professione non organizzata in ordini o collegi. La professione viene descritta come un’«attività economica […] volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi», esercitata soprattutto tramite lavoro intellettuale, e vengono esclusi «le attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi […] delle professioni sanitarie». In queste righe è già presente la linea di demarcazione: la cura diventa professione quando rimane fuori dai territori delle professioni sanitarie, i mestieri artigianali e le attività di pubblico esercizio.
Nel tentativo di valorizzare queste professioni emergenti, l’articolo 2 riconosce il diritto degli operatori a costituire associazioni. Tuttavia, lo stesso articolo inserisce un divieto linguistico preciso: alle associazioni «sono vietati l’adozione e l’uso di denominazioni professionali relative a professioni organizzate in ordini o collegi». La norma aggiunge che i professionisti non iscritti agli albi «non possono esercitare le attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti» a meno che non possiedano i requisiti e l’iscrizione al relativo albo. In pratica, la legge non proibisce l’uso della parola terapeuta, ma vieta di appropriarsi di titoli che spettano a professioni regolamentate o di svolgere prestazioni riservate ai sanitari; chi lavora nel benessere non deve generare confusione con la sfera medica.
Questa scelta linguistica rivela una tensione: da un lato, la legge vuole offrire un quadro di tutela e riconoscimento a operatori e utenti; dall’altro, perpetua la centralità della medicina nel definire che cosa sia una terapia. Nel comma 3 dello stesso articolo 1 si legge che chi esercita una professione non organizzata deve indicare esplicitamente nei documenti di lavoro il riferimento alla legge quasi a ricordare al cliente che non si tratta di un atto sanitario. La libertà di esercizio è quindi sorvegliata dal linguaggio: la cura non può travestirsi da medicina.
Nel 2015 il Ministero dello Sviluppo Economico (oggi MIMIT) ha pubblicato la Risoluzione n. 85939 per chiarire la posizione delle attività di massaggio. Il documento, rivolto a centri di massaggio thailandesi e operatori del benessere, precisa che i massaggi rilassanti, rivolti al benessere della persona, «non possono essere considerati sanitari». La Direzione ministeriale ricorda inoltre che le attività di massaggio «non riconducibili a quelle aventi finalità terapeutiche […] e finalizzate al più generico mantenimento di una naturale condizione di “benessere”» non devono essere sottoposte a restrizioni come il possesso del titolo abilitante alla professione di estetista. In altre parole, se il massaggio non mira a guarire o a modificare l’aspetto estetico, rimane nel campo del benessere e non rientra nella sfera sanitaria.
È significativo osservare che la risoluzione ministeriale non menziona mai la terapia energetica né altre espressioni analoghe. Si limita a distinguere tra prestazioni con finalità terapeutiche (sanitarie) e prestazioni per il benessere generale. Per questo molti operatori olistici preferiscono parole come facilitatore, praticante o operatore del benessere: non vi è un divieto formale all’uso di terapia, ma un tacito rimando alla riserva semantica della medicina. La legge e la risoluzione configurano così un lessico nel quale il benessere viene trattato come dimensione legittima ma subordinata, mentre la cura rimane appannaggio della scienza.
Questa ambiguità giuridico‑linguistica alimenta la paura di essere accusati di abuso di professione. Chi si occupa di riequilibrio energetico, meditazione o tecniche del respiro sa che il termine terapia evoca un campo semantico colonizzato dalla biomedicina. La normativa, pur lasciando aperto uno spazio di libertà, consolida l’idea che la cura vera sia quella misurabile e certificata. È qui che si innesta la questione decoloniale: restituire pluralità alle parole della cura significa riconoscere che la salute non è solo un dato clinico, ma un processo di senso, relazione ed energia vitale.
Paura e autocensura: la colonizzazione simbolica
Il termine terapeuta non è vietato dalla legge, eppure suscita timori, esitazioni, autocensure. Questo scarto tra ciò che è giuridicamente lecito e ciò che culturalmente appare rischioso è forse il sintomo più chiaro dell’egemonia biomedica: un dominio che non impone divieti, ma plasma il linguaggio stesso attraverso cui pensiamo la cura.
La legge, come abbiamo visto, non proibisce di usare la parola terapeuta in ambiti non sanitari. Nessuna norma vieta a chi si occupa di pratiche di benessere o di energia di definirsi tale, purché non si dichiari di esercitare attività mediche o diagnostiche. Eppure, nel linguaggio quotidiano, la parola resta circondata da un’aura di pericolo. È come se il diritto dicesse una cosa, ma il senso comune ne imponesse un’altra.
Questo scarto rivela la forza dell’egemonia culturale — nel senso gramsciano del termine — attraverso cui un sapere dominante costruisce il consenso non con la coercizione, ma con la normalizzazione. La biomedicina, lungi dall’essere soltanto un sistema di cura, è diventata un regime di verità: stabilisce non solo che cosa è la salute, ma anche quali parole è legittimo pronunciare per parlarne. In questo modo la medicina moderna, erede del dualismo cartesiano, ha colonizzato l’immaginario della cura, appropriandosi del termine terapeuta e confinando gli altri significati — spirituali, relazionali, simbolici — ai margini del discorso legittimo.
È una colonizzazione simbolica, non meno efficace di quella territoriale. Walter Mignolo parla di colonialità del potere: un sistema che gerarchizza i saperi, separando ciò che è considerato scientifico da ciò che è relegato al folklore o alla spiritualità. La cura energetica o la guarigione spirituale non sono bandite perché pericolose, ma perché eccedono i confini epistemici stabiliti dalla modernità occidentale. La biomedicina, divenuta forma egemonica del sapere, non tollera linguaggi che le sfuggano: non li censura apertamente, ma li svuota di legittimità.
Da un’altra angolazione, si potrebbe dire che la parola terapeuta è oggi un segno conteso: chi la pronuncia al di fuori della medicina si espone a un sospetto, come se violasse un tacito ordine discorsivo. Questo produce, nelle pratiche non biomediche, un sentimento diffuso di precarietà simbolica. L’operatore olistico sa di non infrangere la legge, ma teme di infrangere una norma invisibile, quella del linguaggio egemone.
Questa tensione è evidente anche nel campo della mia esperienza didattica. Durante i corsi di Reiki, fin dal primo livello, invito spesso gli studenti a riflettere sulla genealogia delle parole che usiamo per descrivere la cura. Discutiamo insieme il significato di terapeuta, la sua storia, la sua origine etimologica. Eppure, anche tra coloro che hanno compreso perfettamente che la legge non vieta il termine, riaffiora una cautela quasi viscerale. Molti esitano, preferendo parole come operatore Reiki o praticante, temendo che terapeuta suoni “troppo forte”, “troppo medico”. È un timore che non nasce dall’ignoranza, ma dall’interiorizzazione del potere simbolico che le istituzioni esercitano attraverso il linguaggio.
Da un punto di vista antropologico, questa esitazione è rivelatrice: mostra come l’egemonia non sia soltanto esterna, ma incorporata. Gli studenti, pur avendo acquisito consapevolezza critica, continuano a sentire nel corpo la pressione di un discorso dominante. È un fenomeno di auto-sorveglianza culturale, simile a quello che Foucault descriveva nel panopticon: un potere che non punisce, ma induce a conformarsi.
L’autocensura linguistica diventa così un atto di difesa, ma anche una ferita: testimonia quanto profondamente la modernità biomedica abbia plasmato le possibilità di pensare la cura. La paura di pronunciare terapeuta è la forma quotidiana di questa colonizzazione. La decolonizzazione del linguaggio, allora, non passa soltanto per il diritto di usare una parola, ma per la restituzione di una fiducia epistemica: quella di poter nominare la cura senza chiedere il permesso.
Decolonizzare la cura: restituire complessità al prendersi cura
La parola terapia è diventata sinonimo di intervento medico, ma nella sua origine rimandava a una forma di relazione. Curare significava ristabilire legami, riconciliare l’individuo con la comunità, la natura, il divino. Ripensare la terapia in chiave relazionale significa anche riconoscere che la biomedicina moderna ha disgregato questa dimensione collettiva, trasformando la cura in un atto tecnico e solitario.
Nelle società tradizionali, la cura è sempre stata un affare sociale. Il terapeuta non operava soltanto sul corpo del malato, ma sull’insieme dei legami che lo circondavano. In Giappone, prima della Restaurazione Meiji, gli Yamabushi — asceti di montagna appartenenti prevalentemente alla corrente sincretica dello Shugendō — incarnavano perfettamente questa dimensione relazionale della cura. Non erano medici, né sacerdoti nel senso istituzionale del termine: erano mediatori, figure di confine che agivano per ristabilire l’armonia laddove la malattia di un individuo minacciava l’equilibrio di un gruppo, di un villaggio, di un ambiente.
La loro azione terapeutica consisteva nel riannodare i fili spezzati della vita collettiva, unendo elementi del buddhismo esoterico, dello sciamanesimo montano e del culto locale degli spiriti. La malattia, da questa prospettiva, non era solo un evento biologico, ma un sintomo sociale. Curare significava “portare pace”, restituire coerenza al tessuto delle relazioni.
Con la Restaurazione Meiji (1868), questo modello di cura entra in collisione con la nascente biomedicina importata dall’Occidente, divenuta in breve lo strumento epistemico e politico dello Stato-nazione. La medicina moderna, legittimata come scienza dello Stato, ridefinisce i confini della legittimità terapeutica: da una pluralità di pratiche relazionali e rituali si passa a un monopolio istituzionale. Nel 1872 lo Shugendō viene messo fuorilegge, accusato di superstizione e di disordine sociale.
Ma dietro quella condanna non si nascondeva soltanto un conflitto religioso: era la cattura statale della cura. Il potere moderno, per consolidarsi, doveva riservare a sé il diritto di guarire. La medicina diventa così una forma di biopotere, come sottolinea Foucault: un sapere che gestisce la vita, la norma, la produttività dei corpi. Curare non è più mediare, ma normalizzare. Lo Stato cura non le relazioni, ma la popolazione — un insieme astratto di organismi da mantenere sani per garantire la forza della nazione.
Questa trasformazione è anche un atto di espropriazione simbolica. Là dove lo Yamabushi operava in nome di una comunità e della sua armonia, il medico moderno opera in nome di un principio universale: la scienza. È in questo passaggio che la cura politica — quella che appiana i conflitti, che restituisce equilibrio sociale — viene soppressa in favore della cura biomedica. La prima mirava alla relazione, la seconda alla funzione. E soltanto lo Stato, attraverso la biomedicina, si arroga da allora il diritto di “fare ordine”.
Gramsci definì questa dinamica come egemonia, ossia la capacità delle istituzioni di imporre una visione del mondo non attraverso la coercizione, ma attraverso il consenso. La medicina moderna non domina perché proibisce le altre forme di cura, ma perché fa credere che non ne esistano di altre. È la stessa logica che Agamben, in un altro registro, chiama stato di eccezione permanente: la vita è continuamente amministrata, normalizzata, riportata all’ordine, anche quando la sua complessità eccede ogni protocollo.
Da un’altra angolazione, la colonialità del potere di cui parla Walter Mignolo attraversa anche la storia giapponese. L’importazione della medicina occidentale durante l’epoca Meiji non è solo una questione tecnica, ma una forma di subordinazione epistemica. Le categorie di salute e malattia vengono riscritte secondo modelli europei, cancellando o relegando ai margini i sistemi terapeutici locali. La cura, che era un gesto comunitario, diventa funzione di Stato; il corpo, che era luogo di relazione, diventa oggetto di governo.
Nel mondo neoliberale contemporaneo, questa logica si spinge oltre. La medicina non è più soltanto strumento dello Stato, ma del mercato. L’individuo è chiamato a “prendersi cura di sé” come impresa personale, separata dal contesto collettivo. La malattia diventa fallimento individuale, la guarigione un dovere morale. La dimensione sociale della cura, che gli Yamabushi incarnavano come mediazione, è dissolta nell’ideologia della performance.
Ciò che si perde, in questa transizione, è proprio la relazione. Laddove un tempo curare significava reintegrare il singolo nella trama della comunità, oggi curare significa riparare un corpo isolato. L’antica funzione politica e simbolica della terapia è sostituita da una funzione amministrativa e autoreferenziale. La medicina, scrive Foucault, «diventa un’istituzione di controllo del corpo sociale attraverso la gestione dei corpi individuali» (La naissance de la clinique, 1963).
Ripensare la cura oggi, anche attraverso pratiche come il Reiki, significa forse tornare a questa intuizione originaria: che la guarigione è sempre un processo relazionale, mai solitario. Significa riconoscere che la salute non è un attributo del corpo, ma una forma di equilibrio tra persone, luoghi e tempi. E che restituire alla parola terapia la sua dimensione comunitaria è, in fondo, un atto politico: un modo per decolonizzare la cura, liberandola dal paradigma che la vuole solo tecnica e mai relazione.
Etica del linguaggio e riconoscimento
Riappropriarsi della parola terapeuta non significa opporsi alla medicina, ma sottrarre un termine alla sua cattura esclusiva. Il linguaggio non descrive soltanto il mondo: lo costruisce. Decolonizzare la cura significa allora restituire diritto di parola alle epistemologie sommerse, riconoscere la pluralità dei modi in cui il corpo può essere pensato, sentito, trasformato.
Non si tratta di negare la straordinaria efficacia della biomedicina. Nessun discorso serio sulla cura potrebbe farlo. Si tratta piuttosto di riconoscere che l’efficacia, da sola, non basta a fondare un monopolio del senso. La medicina moderna ha prodotto conquiste innegabili sul piano della sopravvivenza e del sollievo dalla sofferenza; ma, nel suo affermarsi come unico linguaggio legittimo della cura, ha marginalizzato altre forme di sapere e di percezione.
L’egemonia non si manifesta solo nelle istituzioni, ma nelle parole: è lì che prende corpo il potere di decidere che cosa può essere detto, e dunque che cosa può essere pensato.
Da questa prospettiva, l’uso del termine terapeuta nei contesti non biomedici assume un valore politico. Non perché voglia appropriarsi di un titolo, ma perché contesta la riduzione linguistica che la modernità ha imposto al concetto stesso di cura. Dire terapeuta Reiki, terapeuta energetico, terapeuta relazionale non significa rivendicare un ruolo medico, ma affermare che la terapia non è solo trattamento, è relazione: una forma di phronesis incarnata, in cui sapere e sentire coincidono.
Come insegna Gramsci, l’egemonia è il potere di far sembrare naturale ciò che è storicamente costruito. Il monopolio semantico della biomedicina si fonda proprio su questa naturalizzazione: la parola cura appare ormai inseparabile dalla scienza medica, mentre in realtà è il frutto di una genealogia discorsiva che ha escluso altri modi di intendere il corpo e il mondo. Recuperare quella pluralità non significa relativizzare la verità scientifica, ma riconoscere la coesistenza di più verità incarnate.
Foucault ci ricorda che il sapere non è mai neutro: produce effetti di realtà, orienta pratiche, modella soggettività. E se il potere passa anche attraverso i corpi, come lui scrive, allora il linguaggio è una delle sue forme più sottili di esercizio. Parlare di terapia energetica o di cura spirituale significa già agire, produrre mondi, dare spazio a sensibilità altre. Il linguaggio, in questo senso, non è semplice rappresentazione ma pratica performativa: informa la nostra esperienza e ne è informato in una circolarità continua.
Il corpo, in questa circolarità, è il mediatore di senso. È attraverso il corpo che le parole si fanno esperienza, e attraverso l’esperienza che le parole si rinnovano. Quando pronunciamo cura, non enunciamo solo un concetto: evochiamo una postura, una sensibilità, un modo di essere con l’altro. Nel Reiki, questo appare con particolare evidenza: la parola terapia si traduce in un gesto che non ripara, ma ascolta; che non interviene, ma accompagna. È una pratica linguistica e corporea allo stesso tempo, un atto di riconoscimento reciproco.
Da un’altra angolazione, si potrebbe dire che ogni volta che scegliamo di nominare la cura fuori dal linguaggio biomedico, partecipiamo a un gesto decoloniale. Non contro la scienza, ma contro l’idea che la scienza sia l’unica grammatica del reale. Walter Mignolo parla di pluriverso, intendendo un mondo in cui molti mondi possano coesistere. Decolonizzare la parola terapeuta significa proprio questo: restituire alla cura la possibilità di molte voci, di molti corpi, di molte esperienze di senso.
Il linguaggio della cura, se ripensato così, non è solo una questione di parole, ma di giustizia epistemica. È un atto di riconoscimento verso quei saperi che, pur non inscritti nei codici della medicina moderna, continuano a produrre trasformazioni reali nel modo in cui viviamo la sofferenza e il benessere.
È anche un gesto politico nel senso più profondo: quello di ridare al corpo — e ai corpi collettivi — la capacità di dire se stessi, di articolare un’esperienza di cura non subordinata ma dialogica.
Forse decolonizzare la parola terapeuta non significa rivendicarla per sé, ma restituirla al suo significato più originario: avere cura attraverso la relazione. Significa pronunciarla non come titolo, ma come verbo incarnato, come gesto che rimette in circolo il legame tra linguaggio, corpo e mondo.
Mini-glossario — Alcuni termini chiave per orientarsi nel linguaggio critico della cura e della terapia.
Biopolitica
Modalità di governo della vita che agisce sui corpi e sulle popolazioni attraverso saperi, pratiche e istituzioni.
In prospettiva foucaultiana, la biopolitica regola ciò che viene percepito come normale o sano, informando protocolli e dispositivi che definiscono la cura legittima.
Egemonia culturale
Capacità di un gruppo o di un sapere di imporsi come senso comune senza apparire coercitivo.
In senso gramsciano, il linguaggio della biomedicina diventa egemonico quando fa sembrare naturale che solo essa possa definire cosa siano terapia e cura.
Colonialismo epistemico
Processo di subordinazione dei saperi locali o minoritari a un sapere dominante presentato come universale.
In questo quadro, le pratiche di guarigione non occidentali vengono spesso relegate a credenz* o folklore, perdendo riconoscimento epistemico.
Prospettiva decoloniale
Orientamento critico che restituisce voce a epistemologie altre, mettendo in discussione gerarchie di sapere, razza e modernità.
In ambito terapeutico significa riconoscere pluralità di linguaggi e pratiche, superando la subordinazione alla sola validazione biomedica.
Terapia
Dal greco therapeúein: aver cura, servire, accompagnare.
Oggi nel linguaggio comune rimanda all’intervento sanitario; nella prospettiva relazionale recupera il senso originario di presenza condivisa e di attenzione al corpo vissuto come luogo di relazione.
Cura
Pratica di relazione che coinvolge corpo, affetti, contesto e tempo.
Non solo trattamento di una disfunzione, ma tessitura di legami, attenzione incarnata e mediazione di senso: una circolarità tra linguaggio, gesto e percezione in cui il corpo è mediatore.
Bibliografia essenziale e testi di riferimento
Bibliografia essenziale
- Agamben, G. (1998) Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Milano: Edizioni di Comunità.
- Agamben, G. (2002) L’aperto. L’uomo e l’animale. Torino: Bollati Boringhieri.
- Csordas, T. J. (1994) The Sacred Self: A Cultural Phenomenology of Charismatic Healing. Berkeley: University of California Press.
- De Martino, E. (2002 [1961]) La terra del rimorso. Milano: Il Saggiatore.
- Foucault, M. (1998 [1963]) Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico. Torino: Einaudi.
- Foucault, M. (2004 [1977–1978]) Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France. Roma–Bari: Laterza.
- Foucault, M. (2005 [1978–1979]) La nascita della biopolitica. Corso al Collège de France. Roma–Bari: Laterza.
- Gramsci, A. (1975) Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Torino: Einaudi.
- Hall, S. (1997) Representation: Cultural Representations and Signifying Practices. London: Sage / Open University.
- Mignolo, W. D. (2000) Local Histories/Global Designs: Coloniality, Subaltern Knowledges, and Border Thinking. Princeton: Princeton University Press.
- Mignolo, W. D. and Walsh, C. E. (2018) On Decoloniality: Concepts, Analytics, Praxis. Durham NC/London: Duke University Press.
- Merleau-Ponty, M. (2003 [1945]) Fenomenologia della percezione. Milano: Bompiani.
- Turner, V. (1969) The Ritual Process: Structure and Anti-Structure. Chicago: Aldine.
Per ulteriori approfondimenti teorici
- Butler, J. (1997) Excitable Speech: A Politics of the Performative. New York: Routledge.
- Butler, J. (2004) Undoing Gender. New York: Routledge.
- Comaroff, J. and Comaroff, J. L. (1992) Ethnography and the Historical Imagination. Boulder CO: Westview Press.
- Descola, P. (2013) Oltre natura e cultura. Milano: Raffaello Cortina.
- Escobar, A. (2018) Designs for the Pluriverse: Radical Interdependence, Autonomy, and the Making of Worlds. Durham NC: Duke University Press.
- Good, B. J. (1994) Medicine, Rationality and Experience: An Anthropological Perspective. Cambridge: Cambridge University Press.
- Kleinman, A. (1988) The Illness Narratives: Suffering, Healing, and the Human Condition. New York: Basic Books.
- Latour, B. (1991) Non siamo mai stati moderni. Milano: Elèuthera.
- Nancy, J.-L. (2000) L’intruso. Milano: Cronopio.
- Nancy, J.-L. (2008) Corpus. Milano: Cronopio.
- Taussig, M. (1980) The Devil and Commodity Fetishism in South America. Chapel Hill: University of North Carolina Press.

1 Comments on “Il terapeuta e la parola proibita: linguaggio, corpo e potere della cura”
Quando ho letto per la prima volta questa newsletters ho pianto.
L’emozione è arrivata inaspettata, un riconoscimento profondo e totale nell’etimologia del termine discusso. Therapeùein, “colui che serve” è in sostanza il nucleo di me stessa.
Nella mia pratica Reiki è centrale l’essere con e per l’altro. Immersa nel silenzio della stanza, riempito come una tazza dai respiri caldi di due esseri umani che sono insieme nello stesso spazio. I movimenti lenti e attenti sul corpo dell’altro, che incarnano la cura per eccellenza e quel “qualcosa” che non ha un nome, ma che è un sentire profondamente l’altro e scegliere di stare lì accanto a lui, nel suo buio, nei suoi limiti e nell’umanità che ci rende uguali.
E’ per questo che per me il termine “terapeuta” dovrebbe essere restituito a tutto questo. Perché “curare” come viene scritto nell’ interessantissimo e approfondito articolo è prima di ogni cosa un modo di essere con l’altro, una presenza discreta e devota che non vuole invadere, ma stare.
Ed è solo nell’esperire profondamente tutto questo che si può avere chiara la visione, come cita poeticamente Federico nel suo “Diario di campo”, di “un ritmo condiviso che ricuce la pelle al paesaggio”.
Sempre grata caro Federico, per ogni tua parola cercata, pensata, sentita, vissuta e scritta.
Emanuela