Chakra: significato, origini e usi nelle pratiche olistiche tra storia e spiritualità moderna

Federico ScottiRisorse Reiki3 Commenti

chakra

I chakra tra tradizione e riscrittura moderna

I chakra rappresentano oggi uno dei concetti più familiari del lessico spirituale contemporaneo. Presenti nei percorsi di yoga, meditazione, Reiki, terapie olistiche e trattamenti energetici, vengono spesso descritti come “centri energetici” situati lungo il corpo umano, connessi al benessere psico-fisico e alla realizzazione spirituale. Tuttavia, ciò che oggi si intende comunemente con “chakra” è il risultato di una lunga e stratificata storia di risemantizzazioni, traduzioni e adattamenti culturali che meritano di essere compresi nella loro complessità.

Origini linguistiche e molteplicità di significati

Il termine chakra deriva dalla parola sanscrita cakra, che letteralmente significa “ruota”, “disco” o “cerchio”. Si tratta di una parola antichissima, attestata nei testi vedici e successivamente nelle fonti buddhiste, tantriche e puraniche, con significati e funzioni profondamente diversi tra loro. Non si tratta quindi di un concetto univoco e universale, ma di un termine polisemico, che assume configurazioni differenti a seconda del contesto storico, religioso e filosofico in cui viene impiegato.

Nei Veda e nei Purāṇa, ad esempio, il cakra può designare un’arma divina, come il celebre sudarśana cakra di Viṣṇu, un disco rotante che simboleggia il potere cosmico e l’ordine del dharma. In altri contesti, cakra indica un tornio, uno strumento tecnico, oppure un elemento dell’equipaggiamento militare. Questi usi “non spirituali” del termine mettono in evidenza come la sacralizzazione energetica del cakra sia solo una delle molteplici genealogie possibili.

Nella tradizione tantrica e nello Yoga classico, il termine cakra viene gradualmente reinterpretato come punto di intersezione tra canali energetici sottili, configurandosi come nodo simbolico attraverso cui si articolano esperienze meditative e rappresentazioni del corpo sottile.

Da un’altra angolazione, la fortuna moderna del termine chakra nei linguaggi della spiritualità contemporanea e delle terapie alternative deve molto alle rielaborazioni teosofiche, new age e yoga occidentale novecentesco. In questo processo, chakra è diventato un metaconcetto: una parola-segnale capace di evocare un’intera cosmologia energetica anche laddove non ne vengano condivisi né il quadro epistemologico né le pratiche rituali originarie.

I chakra nel tantra: anatomie sottili e visioni del corpo

La prima elaborazione sistematica del concetto di chakra come centro energetico si colloca all’interno delle tradizioni tantriche, un complesso insieme di insegnamenti spirituali emersi in India tra il VI e l’XI secolo, che hanno influenzato profondamente sia l’induismo sia il buddhismo. Il termine tantra, lungi dal designare un’unità dottrinale coerente, raccoglie al contrario una pluralità di testi, pratiche e rituali che condividono un approccio esperienziale al divino e una concezione del corpo come strumento di trasformazione spirituale.

Nel tantrismo, l’essere umano è dotato di un corpo sottile (sūkṣma śarīra), distinto dal corpo fisico e invisibile ai sensi ordinari, in cui circolano flussi energetici chiamati prāṇa (soffio vitale). Tali flussi scorrono attraverso migliaia di nāḍī, canali sottili spesso rappresentati come linee simboliche che si intersecano in determinati punti: i chakra.

Il numero delle nāḍī è tradizionalmente stimato in 72.000, ma tre di esse sono considerate fondamentali:

  • Suṣumṇā, che corre verticalmente lungo l’asse centrale del corpo sottile;

  • Iḍā, che parte dalla base della colonna vertebrale e sale a sinistra;

  • Piṅgalā, che parte anch’essa dalla base ma sale a destra.

L’intersezione tra queste tre nāḍī genera i principali chakra, la cui quantità e posizione variano a seconda delle scuole: alcuni testi ne menzionano 6, altri 7, altri ancora fino a 114.

I chakra come centri simbolici e non organi oggettivi

È cruciale sottolineare che questi chakra non devono essere intesi come entità localizzabili in senso anatomico. Si tratta piuttosto di modelli simbolici del corpo, dispositivi attraverso cui si articola un sapere pratico e rituale volto a trasformare l’esperienza percettiva, emotiva e spirituale del praticante. Lontano da qualsiasi naturalizzazione energetica, il chakra è il prodotto di una rappresentazione culturalmente situata dell’interiorità.

Ogni chakra è associato a specifiche funzioni psico-spirituali, a un numero variabile di petali (che rappresentano stati mentali o suoni sacri), a un mantra (formula sonora) e a uno yantra (diagramma geometrico simbolico). Inoltre, nella rappresentazione più nota, i chakra sono raffigurati come fiori di loto sovrapposti lungo l’asse del corpo, dalla base della colonna fino al capo, a evocare una graduale elevazione della coscienza.

I chakra nello Yoga: il percorso della kundalinī

Nella pratica dell’Haṭha Yoga – che integra tecniche fisiche, respiratorie e meditative – i chakra assumono la forma di tappe simboliche lungo il cammino dell’energia kundalinī, una potenza divina quiescente rappresentata come un serpente arrotolato alla base del corpo.

Il fine ultimo di molte pratiche yogiche tantriche è il risveglio della kundalinī, che, salendo attraverso la nāḍī centrale suṣumṇā, attiva progressivamente ciascun chakra, aprendo vie di consapevolezza sempre più sottili. Questa ascesa culmina nella dissoluzione dell’ego e nell’unione con il divino, concepita come liberazione (mokṣa) dal ciclo delle reincarnazioni.

Tuttavia, è necessario evitare di confondere tale rappresentazione rituale e simbolica con una mappa fisiologica. Come ricorda Geoffrey Samuel, il corpo yogico non è né biologico né metafisico, ma “una costruzione pratica che emerge attraverso l’addestramento e la visualizzazione” (Samuel 2008).

In altre parole, i chakra non sono organi da individuare o correggere, ma immagini operanti che strutturano l’esperienza vissuta in contesti rituali precisi.

Chakra e varietà dottrinali: una pluralità di sistemi

Nelle fonti tantriche antiche, non esiste un solo sistema di chakra, né un consenso assoluto sulla loro disposizione o numero. A seconda del testo o della scuola di riferimento, si possono trovare:

  • 6 chakra (modello più comune nel tantrismo śākta);

  • 7 chakra (diffuso nello yoga moderno e nelle riletture occidentali);

  • 10, 12 o 21 chakra (in testi più rari);

  • 114 centri nel sistema del corpo sottile secondo alcune scuole siddha e visioni yogiche contemporanee.

Questa eterogeneità mette in discussione ogni tentazione di canonizzare un’unica mappa come “quella vera”. Anziché cercare autenticità metafisiche, l’approccio antropologico invita a riconoscere la storicità e l’operatività situata di ciascun sistema, come modalità specifiche di articolare il sapere sul corpo e sull’esperienza.

Dalla teosofia allo yoga globale: la modernità dei chakra

La rappresentazione oggi dominante dei chakra come sette centri energetici allineati lungo la colonna vertebrale, associati a colori, ghiandole endocrine, emozioni e livelli di coscienza, non ha radici dirette nei testi tantrici antichi, ma è il frutto di una codificazione moderna e occidentale iniziata tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.

Questo processo di riscrittura culturale si inscrive all’interno di una più ampia dinamica di traduzione spirituale che ha visto concetti religiosi asiatici reinterpretati alla luce delle esigenze epistemologiche, terapeutiche e simboliche dell’Occidente moderno, attraverso quella che alcuni studiosi hanno definito come glocalizzazione spirituale o orientalismo spirituale (Lopez 1998; King 1999).

Johann Georg Gichtel e le prime tracce in Europa

Uno dei primi autori occidentali a parlare di “centri spirituali” nel corpo umano fu Johann Georg Gichtel (1638–1710), teologo e mistico tedesco legato alla tradizione cristiano-teosofica. Nella sua opera Theosophia Practica, Gichtel descriveva sette punti spirituali lungo la colonna vertebrale, in analogia con l’alchimia interiore, anticipando inconsapevolmente una mappa che, sebbene non chiamata “chakra”, avrebbe poi trovato risonanza nelle reinterpretazioni successive.

Arthur Avalon e l’appropriazione orientalista

Ma è nel XX secolo che il concetto di chakra entra pienamente nell’immaginario spirituale occidentale, grazie all’opera dell’orientalista britannico Sir John Woodroffe (1865–1936), che, sotto lo pseudonimo Arthur Avalon, pubblica nel 1919 The Serpent Power, una traduzione annotata del testo sanscrito Ṣaṭcakranirūpaṇa.

Sebbene l’opera originale indiana fosse un trattato rituale e devozionale tantrico, Avalon la presenta al pubblico europeo come una “scienza esoterica del corpo umano”, contribuendo così a una rilettura simbolico-fisiologica dei chakra che avrebbe avuto enorme fortuna nel contesto dello yoga moderno.

L’operazione di Avalon è un esempio emblematico di appropriazione epistemo-politica: un sapere situato e rituale viene reinterpretato come teoria universale del corpo umano, sganciandolo dal suo contesto liturgico e devozionale.

Charles Leadbeater e l’invenzione teosofica dei chakra

Il passo successivo nella standardizzazione occidentale dei chakra si deve al teosofo britannico Charles W. Leadbeater, che nel 1927 pubblica The Chakras, un’opera che diventerà una delle principali fonti per la successiva iconografia new age.

Leadbeater, autoproclamatosi chiaroveggente, sostiene di aver “visto” i chakra come vortici colorati durante le sue pratiche meditative. Descrive dettagliatamente forma, colore, funzione e velocità di rotazione di ciascun chakra, creando un immaginario visivo e funzionale che non ha alcun corrispettivo nei testi indiani.

Attraverso la lente teosofica, i chakra diventano così centri energetici da riequilibrare, aprire o purificare, contribuendo a una visione spirituale del benessere profondamente radicata nel soggetto moderno, individuale, interiorizzato e post-religioso.

Christopher Hills e il corpo arcobaleno

Negli anni ’70, l’autore britannico Christopher Hills pubblica Nuclear Evolution: The Discovery of the Rainbow Body (1977), opera che codifica definitivamente l’associazione dei sette chakra con i sette colori dell’arcobaleno, schema oggi ampiamente diffuso.

Hills assegna a ogni chakra:

  • un colore (rosso per il primo, arancione per il secondo, fino al viola/bianco per il settimo),

  • una frequenza vibrazionale,

  • una tipologia di personalità umana.

Se la teoria cromatica ebbe un’enorme risonanza, al punto da diventare la rappresentazione standard dei chakra nel mondo olistico contemporaneo, l’associazione con le personalità non trovò altrettanto consenso. Resta tuttavia significativo che, per la prima volta, il corpo sottile venisse sincronizzato con uno spettro visibile, operazione che sancisce la piena adesione del discorso spirituale alle logiche della psicologia pop e della bioenergetica.

Dalla ritualità alla regolazione: i chakra nella modernità terapeutica

Attraverso queste riscritture, il concetto di chakra è passato da simbolo rituale situato a oggetto terapeutico standardizzato, su cui agiscono pratiche energetiche, visioni interiori, dispositivi di cura e performance spirituali. Nella contemporaneità, i chakra vengono così utilizzati per diagnosticare disagi fisici, emotivi o relazionali, ma anche per guidare percorsi di crescita personale, riconfigurando il corpo come campo energetico da armonizzare.

Questa trasformazione non è neutra: essa risponde a bisogni di senso propri del soggetto tardo-moderno, spesso in crisi con i codici della medicina biomedica o delle religioni istituzionali, ma anche affamato di mappe interiori, di spiritualità leggera e di pratiche percepite come “universali”.

In altre parole, i chakra sono divenuti una grammatica simbolica globale, la cui funzione non è più solo soteriologica ma terapeutico-identitaria.

I sette chakra principali: una sistematizzazione moderna

La teoria dei sette chakra oggi più diffusa, in India come in Occidente, è il risultato di una sintesi novecentesca tra testi tantrici, interpretazioni teosofiche e necessità simboliche del soggetto moderno. Pur trovando ispirazione in testi come il Ṣaṭcakranirūpaṇa, questa visione a sette livelli costituisce una stratificazione discorsiva, più che una trasmissione diretta.

1. Mulādhāra – Chakra della radice

  • Significato: “fondamento”, “radice”

  • Posizione: base della colonna vertebrale, tra ano e genitali

  • Tradizione tantrica: punto di partenza dell’ascesa della kundalinī, collegato all’elemento terra e al senso dell’odore

  • Interpretazione moderna: stabilità, sopravvivenza, istinto primario, sicurezza materiale

  • Colore (Hills): rosso

  • Ghiandole/organi: surreni, sistema scheletrico e gambe

Il Mulādhāra viene oggi spesso descritto come “il chakra delle fondamenta”, ma nella sua rappresentazione originaria è il luogo in cui la kundalinī giace dormiente. Non è il “centro della paura” ma l’inizio simbolico di un percorso di interiorizzazione.

2. Svādhiṣṭhāna – Chakra sacrale

  • Significato: “la propria dimora”

  • Posizione: sotto l’ombelico, nella zona pelvica

  • Tradizione tantrica: associato all’acqua, alla procreazione e al senso del gusto

  • Interpretazione moderna: sessualità, creatività, piacere, emozioni fluide

  • Colore (Hills): arancione

  • Ghiandole/organi: gonadi, apparato riproduttivo

Svādhiṣṭhāna è oggi spesso rappresentato come sede della sensualità o del “potere creativo”, ma nella tradizione tantrica è anche un punto instabile, da superare per accedere a piani di coscienza superiori. Il suo simbolismo oscilla tra attrazione e pericolo.

3. Maṇipūra – Chakra del plesso solare

  • Significato: “città dei gioielli”

  • Posizione: plesso solare, tra l’ombelico e lo sterno

  • Tradizione tantrica: associato al fuoco, al metabolismo e alla vista

  • Interpretazione moderna: volontà, identità, potere personale, ego

  • Colore (Hills): giallo

  • Ghiandole/organi: pancreas, sistema digestivo

Maṇipūra è divenuto nell’immaginario contemporaneo il centro dell’“autostima” e della “determinazione”. Tuttavia, nel sistema tantrico, è anche luogo di trasformazione e combustione, in cui l’energia si purifica per salire oltre la personalità.

4. Anāhata – Chakra del cuore

  • Significato: “non colpito”, “non battuto”

  • Posizione: centro del petto

  • Tradizione tantrica: associato all’aria, all’amore universale e all’udito

  • Interpretazione moderna: affetto, empatia, connessione relazionale, perdono

  • Colore (Hills): verde

  • Ghiandole/organi: cuore, polmoni, sistema immunitario

Anāhata è oggi centrale nelle pratiche olistiche, dove diventa sede dell’amore incondizionato e della guarigione emotiva. Questa idealizzazione moderna ne enfatizza l’aspetto relazionale, trascurando la sua funzione di passaggio tra mondo materiale e spirituale.

5. Viśuddha – Chakra della gola

  • Significato: “purificazione”, “purissimo”

  • Posizione: gola

  • Tradizione tantrica: associato all’etere e al senso dell’udito (come risonanza sacra)

  • Interpretazione moderna: comunicazione, espressione di sé, verità personale

  • Colore (Hills): blu

  • Ghiandole/organi: tiroide, corde vocali

Viśuddha viene spesso descritto come il “chakra della voce”, ma nella tradizione tantrica è legato a poteri sonori e mantra. L’attenzione moderna per l’auto-espressione riflette invece le esigenze di autenticità e visibilità proprie della soggettività contemporanea.

6. Ājñā – Chakra del terzo occhio

  • Significato: “comando”, “percezione”, “intuizione”

  • Posizione: centro della fronte, tra le sopracciglia

  • Tradizione tantrica: sede della coscienza superiore, collegata alla luce e alla mente

  • Interpretazione moderna: intuizione, consapevolezza, visione interiore

  • Colore (Hills): indaco

  • Ghiandole/organi: ipofisi, occhi, corteccia frontale

Ājñā rappresenta, nella lettura contemporanea, il punto in cui si superano le illusioni. Nella visione tantrica è il luogo dell’accesso ai mondi sottili, ma anche della disciplina mentale. Il suo simbolismo moderno ne ha fatto un’icona della spiritualità intuitiva.

7. Sahasrāra – Chakra della corona

  • Significato: “mille petali”

  • Posizione: sommità del capo

  • Tradizione tantrica: punto di unione con il divino, oltre i dualismi corporei

  • Interpretazione moderna: coscienza cosmica, illuminazione, trascendenza

  • Colore (Hills): viola o bianco

  • Ghiandole/organi: epifisi (ghiandola pineale)

Il Sahasrāra non è propriamente un chakra “nel corpo”, ma al di fuori del sistema energetico. Nelle pratiche tantriche rappresenta il superamento del ciclo delle rinascite. Nella sua versione moderna, si è spesso trasformato in un “obiettivo spirituale” da raggiungere, metafora di una soggettività risvegliata e autonoma.

Questa sistematizzazione a sette livelli, pur potente dal punto di vista simbolico e terapeutico, non coincide con alcun modello canonico tradizionale. È un prodotto culturale composito, utile come mappa, ma non neutrale: riflette una certa visione del corpo, dell’individuo e del percorso spirituale, modellata dalla cultura psicospirituale occidentale contemporanea.

Chakra e terapie olistiche contemporanee

Nella cultura spirituale e terapeutica contemporanea, i chakra sono divenuti uno dei riferimenti centrali e più riconoscibili. La loro diffusione nei contesti olistici, new age e spiritualità integrata è tale che risulta quasi sorprendente imbattersi in pratiche che non ne contemplino il linguaggio, le immagini o i riferimenti simbolici.

Dal punto di vista storico e antropologico, questo successo globale dei chakra non deriva da un processo lineare di trasmissione, bensì da un riuso creativo e spesso decontestualizzato. I chakra si sono trasformati in un vero e proprio dispositivo terapeutico transculturale, capace di connettere esperienze corporee, bisogni esistenziali e narrazioni spirituali in una forma accessibile e flessibile.

I chakra come oggetti terapeutici

Nel paradigma olistico moderno, i chakra vengono spesso considerati come centri energetici regolabili, la cui armonizzazione consente il recupero dell’equilibrio psico-fisico e spirituale. Ogni chakra viene associato a specifici “blocchi” emotivi o somatici e diventa così un punto d’intervento simbolico per diagnosticare, interpretare e trasformare malesseri vissuti spesso come inafferrabili o non riconosciuti dalla medicina convenzionale.

Le pratiche terapeutiche che fanno uso dei chakra sono molteplici, tra cui:

  • Reiki (soprattutto nella sua variante occidentale, che include trattamenti “dei sette chakra”);

  • Cristalloterapia, che posiziona pietre e minerali su ogni centro;

  • Aromaterapia, con oli essenziali dedicati a ciascun chakra;

  • Cromoterapia, che lavora sulla corrispondenza tra chakra e colori;

  • Terapie sonore, come le campane tibetane o il canto armonico, che intervengono sulle frequenze associate ai chakra;

  • Visualizzazioni guidate, che aiutano il soggetto a “percepire” e “liberare” i propri chakra.

Queste tecniche, pur molto diverse tra loro, condividono un quadro epistemologico comune: quello di un corpo energetico sottile, organizzato in centri e flussi, che può essere “riequilibrato” attraverso stimoli vibrazionali, simbolici o intenzionali.

Il ruolo simbolico del chakra nel setting terapeutico

In molte terapie olistiche, i chakra operano come mediatore simbolico tra esperienza e narrazione. Non sono semplicemente “trattati”, ma diventano luoghi di senso attraverso cui l’individuo rilegge le proprie emozioni, biografie e fragilità. In questo senso, il chakra è anche un linguaggio: una griglia semantica che permette di rendere comunicabile l’invisibile, condivisibile il dolore, trasformabile il vissuto.

Questa funzione simbolico-terapeutica dei chakra è, in sé, significativa e non va sottovalutata. Tuttavia, è essenziale problematizzare il modo in cui questi concetti vengono universalizzati e decontestualizzati, spesso svincolati dalle loro origini storiche, religiose e rituali, e inseriti in cornici terapeutiche ibride, in cui spiritualità e psicologia si confondono.

Tra glocalizzazione e rischio di appropriazione

Il successo globale dei chakra si inscrive in un più ampio fenomeno di glocalizzazione spirituale: concetti e pratiche originariamente situati vengono estratti dai loro contesti e riadattati secondo logiche locali, terapeutiche o di mercato. Questo processo può favorire esperienze trasformative, ma comporta anche rischi di appropriazione culturale, specialmente quando le fonti tradizionali vengono cancellate, semplificate o rese folcloristiche.

In particolare, si osservano dinamiche ricorrenti:

  • La naturalizzazione dei chakra come realtà scientifiche o anatomiche, spesso giustificata con metafore pseudobiologiche (es. frequenze, vibrazioni, ghiandole endocrine), che maschera la loro origine rituale e simbolica.

  • La desemantizzazione storica, per cui i chakra vengono svuotati del loro significato religioso e trasformati in “tecnologie” individuali di crescita e prestazione.

  • Il bypass spirituale, ovvero l’uso dei chakra come scorciatoia narrativa per evitare il confronto con emozioni complesse, traumi o conflitti sociali (cfr. Wilber; Cashwell).

Riflessione critica

I chakra, nella forma in cui sono oggi utilizzati, sono prodotti culturali ibridi, nati dall’incontro (e dallo squilibrio) tra saperi tradizionali dell’Asia meridionale, bisogni terapeutici del soggetto moderno e circuiti globali della spiritualità pop. Trattarli come strumenti “universali” o “naturali” significa ignorare il loro statuto storico e discorsivo.

Tuttavia, ciò non implica negarne la funzione o l’efficacia simbolica. Al contrario, l’invito è a riconoscere i chakra come forme dinamiche di mediazione tra corpo, discorso e identità, restituendo loro complessità e dignità, senza cadere nell’ingenuità spiritualista o nell’appropriazione estetizzante.

I chakra nel Reiki: una sovrapposizione occidentale

All’interno della pratica del Reiki, soprattutto nella sua versione occidentale, la teoria dei chakra occupa oggi un ruolo centrale. Trattamenti “per i sette chakra”, armonizzazioni energetiche chakra-specifiche e percorsi formativi strutturati secondo il modello a sette centri sono ampiamente diffusi. Tuttavia, questa connessione tra Reiki e chakra è una costruzione recente, che non appartiene alla disciplina originale sviluppata da Usui Mikao in Giappone nei primi anni ’20 del Novecento.

Il Reiki giapponese e l’assenza del modello dei chakra

La pratica del Reiki, nella sua forma originaria (Usui Reiki Ryōhō), non includeva alcun riferimento all’anatomia sottile tantrica, né alla teoria dei chakra. La visione del corpo e dell’energia in Giappone era modellata da altre influenze, tra cui:

  • le pratiche ascetiche buddiste esoteriche (come lo Shingon),

  • il pensiero medico sino-giapponese (meridiani, ki, hara),

  • l’etica confuciana e la visione spirituale del corpo come contenitore del rei, lo spirito.

Il linguaggio utilizzato da Usui e dai suoi allievi faceva riferimento a concetti quali byōgen (radice della malattia), rei (spirito), ki (energia vitale), e non prevedeva la localizzazione di “centri” energetici da sbloccare o aprire.

Anche la gestualità terapeutica (come l’imposizione delle mani) non seguiva una mappa fissa dei sette chakra, ma piuttosto un ascolto percettivo e intuitivo dei segnali corporei, nel rispetto di un principio più relazionale che diagnostico.

L’introduzione dei chakra nel Reiki occidentale

L’inserimento dei chakra nel Reiki avviene negli Stati Uniti e in Europa tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, attraverso l’influenza combinata di:

  • approcci terapeutici olistici,

  • pratiche di yoga e meditazione orientate alla crescita personale,

  • manuali divulgativi e formazioni miste (Reiki + chakra + cristalli, ecc.),

  • la standardizzazione di programmi formativi internazionali basati su categorie sincretiche.

In questo contesto, il modello dei sette chakra diventa una griglia funzionale e riconoscibile, utile per costruire sequenze di trattamento, manuali didattici e percorsi esperienziali “adattabili” al pubblico occidentale.

Il successo di questa integrazione è comprensibile: i chakra offrono una narrativa chiara e simbolicamente potente, in cui l’idea di “energia bloccata” corrisponde a esperienze soggettive comuni di disagio, stagnazione o frustrazione emotiva.

Tuttavia, proprio questa efficacia narrativa rischia di offuscare la dimensione culturale e rituale del Reiki giapponese, a favore di una spiritualità terapeutica globale standardizzata.

Il trattamento dei chakra nel Reiki: tra funzione simbolica e narrazione del sé

Nel Reiki occidentale, il trattamento dei chakra segue spesso una scansione lineare “dal basso verso l’alto”, in analogia con il percorso della kundalinī nello yoga. Ogni posizione delle mani corrisponde a un centro energetico, e il lavoro terapeutico consiste nel:

  • riequilibrare chakra “ipofunzionanti” o “iperattivi”,

  • accompagnare l’emergere di emozioni legate a un chakra specifico,

  • “aprire” i centri bloccati attraverso tecniche energetiche, visualizzazioni, affermazioni o simboli.

Questa modalità, pur efficace per molti praticanti, non trova riscontro né nelle fonti storiche del Reiki né nei lineamenti della medicina tradizionale giapponese. È una costruzione sincretica, che unisce elementi di cultura new age, psicologia junghiana e spiritualità energetica.

Il chakra, in questo contesto, non è tanto un oggetto “energetico” quanto una funzione simbolica: permette al soggetto di attribuire senso al proprio vissuto, articolare la propria storia, riconoscersi in un percorso.

Verso un uso consapevole e contestualizzato

Lungi dal condannare l’uso dei chakra nel Reiki, si tratta di riconoscerne la genesi, i limiti e le potenzialità simboliche, evitando due rischi principali:

  1. Naturalizzazione culturale: trattare i chakra come elementi “naturali” del Reiki, senza considerare le loro origini storiche, le logiche discorsive che li hanno resi funzionali e la loro natura costruita.

  2. Esclusione epistemologica: ignorare o rimuovere la complessità culturale del Reiki giapponese, sostituendola con modelli globali e sincretici che appiattiscono le differenze.

Una pedagogia critica del Reiki dovrebbe quindi offrire strumenti per distinguere tra ciò che appartiene alla genealogia storica della disciplina e ciò che rappresenta un’innovazione contemporanea. Solo così si può costruire una pratica realmente consapevole, che non confonda il rispetto della tradizione con il ritorno acritico a un’essenza, né l’innovazione con l’omologazione.

Conclusione: per una lettura situata dei chakra

I chakra, così come oggi vengono intesi, praticati e visualizzati nel mondo occidentale e globalizzato, non sono elementi fissi o universali dell’esperienza umana, ma dispositivi simbolici, storicamente e culturalmente costruiti. La loro funzione non risiede nella verità ontologica di un corpo energetico misurabile, ma nella loro capacità di organizzare l’esperienza, significare il vissuto, articolare il linguaggio del benessere in una forma accessibile e condivisa.

Da un’altra angolazione, i chakra agiscono come griglie semiotiche: non rappresentano semplicemente uno stato del corpo o dell’anima, ma contribuiscono attivamente a produrlo. Essi forniscono una mappa attraverso cui interpretare il sé, i propri blocchi, le proprie trasformazioni, costruendo narrazioni di guarigione che intrecciano fisiologia, emozione e spiritualità.

Tuttavia, riconoscere questa dimensione simbolico-narrativa non significa legittimare ogni uso dei chakra come innocuo. Anzi, è proprio nel momento in cui diventano patrimonio condiviso, “evidenza energetica”, che i chakra rischiano di occultare la propria genealogia storica e culturale, offrendo l’illusione di un sapere universale e atemporale. È qui che emerge il problema dell’appropriazione culturale: quando un concetto radicato in tradizioni rituali complesse viene decontestualizzato, standardizzato e commercializzato, senza alcuna attenzione al suo background né al potere epistemologico che comporta.

In questo senso, parlare di chakra oggi significa necessariamente problematizzare il rapporto tra spiritualità e cultura, tra benessere e storia, tra pratiche terapeutiche e logiche di mercato. Significa riconoscere che ogni mappa del corpo è anche una mappa del mondo, che ogni “blocco energetico” può essere anche un effetto discorsivo, che ogni “apertura” può corrispondere tanto a un gesto di cura quanto a una forma di espropriazione.

La sfida non è dunque quella di tornare a una purezza originaria (che non è mai esistita), né quella di rigettare ogni ibridazione come inautentica. La sfida è piuttosto quella di coltivare una coscienza critica delle genealogie che abitano le nostre pratiche: sapere da dove vengono i concetti che usiamo, con quali trasformazioni sono giunti fino a noi, quali implicazioni veicolano.

Una spiritualità consapevole dei suoi presupposti non ha bisogno di dogmi energetici né di essenzialismi culturali. Ha bisogno di linguaggi capaci di tenere insieme complessità e cura, memoria e trasformazione, rispetto e creatività. In questo orizzonte, anche i chakra possono diventare non simboli da fissare, ma porte da attraversare, varchi semiotici verso forme più etiche, situate e relazionali del prendersi cura.

📚 Mini-glossario dei concetti chiave

  • Chakra (cakra): Termine sanscrito che significa “ruota” o “disco”. Nel tantrismo, nodi energetici generati dall’incrocio delle nāḍī; in Occidente, centri simbolici di benessere e crescita personale.
  • Nadi: Canali sottili (*suṣumṇā*, *iḍā*, *piṅgalā*) attraverso cui fluisce il prāṇa nel corpo sottile. Il loro incrocio origina i chakra.
  • Prāṇa: Soffio vitale indiano, forza energetica che anima il corpo sottile e che distingue dalla mera respirazione.
  • Kundalinī: Energia dormiente simbolizzata come serpente alla base della colonna vertebrale, il cui risveglio attiva i chakra. Principio di trasformazione spirituale.
  • Tantra: Tradizione esoterica indiana, rituale e corporea, che elabora la cosmologia del corpo energetico e sviluppa la mappa dei chakra.
  • Teosofia: Movimento spirituale occidentale (XIX–XX sec.) che ha reinterpretato dottrine asiatiche—tra cui i chakra—secondo paradigmi esoterico-universalisti.
  • Glocalizzazione spirituale: Processo di adattamento e risignificazione locale di pratiche spirituali provenienti da contesti culturali distanti.
  • Appropriazione culturale: Uso decontestualizzato e spesso commerciale di pratiche tradizionali, privo di riconoscimento delle origini culturali.
  • Reiki giapponese: Pratica energetica sviluppata da Usui Mikao nei primi anni ’20, senza riferimento esplicito ai chakra, ma centrata sul *ki* e sull’imposizione intuitiva delle mani.
  • Reiki occidentale: Evoluzione sincretica nata tra anni ’80–’90, che integra la teoria dei chakra, visioni energetiche globalizzate e approcci olistici moderni.
L'Autore

Federico Scotti

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Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

3 Comments on “Chakra: significato, origini e usi nelle pratiche olistiche tra storia e spiritualità moderna”

  1. Grazie veramente interessante. Mi permette di confrontare queste informazioni col mio passato di buddismo tibetano.
    Donatella

  2. Grazie per la preziosa annotazione storica. Secondo me l’energia universale fluisce a prescindere dalla consapevolezza delle stazioni chakra sopra le quali transitano le mani dell’operatore Reiki. Le pratiche yoga possono aiutare autoconsapevolezza ed armonizzazione personale, le meditazioni, la respirazione,..con esito, per me, di ottimizzare il “contatto” con la stessa energia universale.

  3. Ti ringrazio, per la trattazione approfondita e puntuale e soprattutto per la chiara presa di posizione sulla collocazione dei chakra. L’energia è una e tutte le vie suggeriscono un percorso che porti alla luce, alla liberazione, ma è importante avere consapevolezza dei diversi percorsi per non confonderli o contaminarli senza averne coscienza.

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