Reiki tra luce, amore e comunità: Umberto Carmignani

Federico ScottiRisorse ReikiLascia un commento

Astrazione luminosa con forme fluide e calde, che evocano luce, amore e movimento energetico in un paesaggio simbolico.

Questa intervista a Umberto Carmignani è stata pubblicata per la prima volta nel 2019 sul sito My Reiki, all’interno di un ciclo di conversazioni con praticanti e insegnanti Reiki italiani. A distanza di anni, rileggerla oggi significa riconoscere non solo il valore della testimonianza personale, ma anche la sua funzione discorsiva: ogni parola scelta, ogni concetto evocato, ogni omissione contribuisce a costruire un’immagine specifica del Reiki e del soggetto che lo pratica, lo insegna, lo trasmette.

Nel contesto del progetto di My Reiki dedicato alla rilettura critica delle narrazioni Reiki in Italia, questo testo viene qui riaperto e rimesso in circolazione, non per essere giudicato, ma per essere interrogato nel suo posizionamento culturale, epistemologico e spirituale. Il fine non è stabilire se ciò che viene detto sia “giusto” o “autentico”, ma comprendere quali visioni del mondo vengono attivate, quali genealogie spirituali vengono convocate, e quali assi di legittimazione vengono implicitamente o esplicitamente messi in atto.

La figura di Carmignani ha un peso rilevante nella scena del Reiki italiano: fondatore della Città della Luce, realtà comunitaria e centro spirituale molto noto, ha contribuito alla diffusione del Reiki come esperienza trasformativa e come pratica quotidiana incarnata in un progetto collettivo. In un panorama in cui il Reiki viene spesso trasmesso in forma individuale e frammentata, l’idea di costruire una comunità attorno a questa pratica rappresenta un gesto radicale, che merita attenzione. Ma è proprio questa visibilità, questa coerenza spirituale e narrativa, a rendere ancora più interessante una lettura analitica: quale visione del Reiki viene qui proposta? Quali parole dominano? Quali sfondi culturali sono inclusi, e quali rimossi?

Nel discorso di Carmignani si ritrovano molte delle parole chiave del linguaggio spirituale contemporaneo: Luce, Amore, Energia Vitale Universale, Divino, Guarigione. Questi elementi compongono una cosmologia spirituale ampia e luminosa, in cui il Reiki si configura come via d’accesso a un livello superiore dell’essere, come tecnologia della consapevolezza e come strumento per ritrovare se stessi. Ma è proprio dentro questa narrazione — apparentemente inclusiva e rassicurante — che emergono anche alcune tensioni latenti: tra spiritualità individuale e relazione, tra esperienza vissuta e linguaggio universalizzante, tra intenzione trasformativa e cancellazione del contesto culturale d’origine.

Questo articolo si propone quindi di leggere l’intervista come un documento discorsivo: non come testimonianza da validare o confutare, ma come oggetto culturale da interrogare. Senza rinunciare a riconoscerne i punti di forza — in particolare, l’impegno etico nel vivere ciò che si trasmette e la scelta di costruire un’esperienza spirituale condivisa — ci chiederemo quali soggettività spirituali vengono prodotte, quali dispositivi di verità sono attivati, e quale idea di Reiki emerge da questo modo di raccontarlo.

Il Reiki come via salvifica e soggettività spirituale

L’intervista si apre con un elemento biografico forte: il Reiki entra nella vita di Umberto Carmignani nel 1992, in un momento di sofferenza profonda, «sia da un punto di vista fisico che emotivo e psichico». Il linguaggio utilizzato è quello della crisi esistenziale: malattia, insoddisfazione, fallimento relazionale, smarrimento. È all’interno di questo quadro che il Reiki viene introdotto — non come tecnica, né come curiosità spirituale — ma come via di salvezza. L’espressione che egli usa («da quel momento è iniziato quello che definisco il mio Viaggio con Reiki») delinea con chiarezza il passaggio da una condizione di perdita di senso a un orizzonte nuovo, segnato da un cammino trasformativo che, secondo le sue parole, prosegue da oltre trent’anni.

Questa narrazione è tutt’altro che secondaria: colloca il Reiki all’interno di una struttura salvifica che ricalca molte delle traiettorie della spiritualità contemporanea — una spiritualità che, come hanno mostrato Heelas e Woodhead, si propone come risposta alternativa alle crisi del soggetto moderno, in particolare alla frattura tra sé e mondo, tra corpo e senso, tra individuo e comunità.

Ma non si tratta solo di una “funzione terapeutica” della spiritualità: il Reiki, in questa visione, non cura semplicemente una ferita, ma rifonda l’identità di chi lo pratica. Carmignani racconta il suo percorso come un vero e proprio processo di rifondazione soggettiva: da un prima segnato da dolore e alienazione, a un dopo in cui il Reiki permette una nuova partecipazione al reale, non più subita ma vissuta in modo attivo, consapevole, generativo.

In questo senso, il Reiki appare non tanto come strumento, ma come dispositivo spirituale di produzione del soggetto. Non è semplicemente “qualcosa che si fa”, ma “qualcosa attraverso cui si diventa”: canali, esseri di luce, partecipanti al divino. Una forma di soggettivazione che si costruisce nel tempo, attraverso la pratica, ma anche attraverso la narrazione.

Tuttavia, proprio questa narrazione — così limpida, così coerente — pone una prima questione: quale tipo di soggetto spirituale viene qui prodotto? È un soggetto in ascolto? Relazionale? Situato culturalmente? Oppure è una figura già compiuta, capace di attingere a un piano superiore di coscienza attraverso l’accesso diretto all’energia?

Laddove Carmignani parla dell’“Amore per Se Stessi e per la Vita”, della “frequenza elevatissima di Luce”, dell’“Essere parte del Divino”, si attiva un lessico fortemente connotato da una spiritualità assolutizzante e universalizzante. Il soggetto che emerge non è situato, non è storico, non è culturalmente marcato: è un sé cosmico, che partecipa di un’energia che lo precede e lo attraversa. Questa costruzione del sé può produrre effetti liberanti, ma può anche cancellare la complessità, le differenze, le relazioni — restituendo un’identità spirituale pacificata, ma epistemologicamente neutra.

Nel Reiki di Carmignani, il soggetto spirituale è salvato, certo. Ma da cosa — e in quale linguaggio?

Luce, Amore, Energia: retoriche del lessico spirituale universale

Nel discorso di Umberto Carmignani, i termini Luce, Amore, Coscienza, Divino, Energia Vitale Universale ricorrono in modo insistito e centrale. Queste parole non vengono mai problematizzate, né contestualizzate: sono presentate come dati immediati dell’esperienza, come se il loro significato fosse autoevidente. Il Reiki, in questo quadro, appare non tanto come una pratica situata, ma come una via d’accesso a una dimensione ontologicamente superiore e naturalmente buona: una realtà di frequenze elevate, connessione spirituale e risonanza energetica pura.

Questo uso del linguaggio appartiene a pieno titolo a quella che alcuni studiosi definiscono la spiritualità universale contemporanea: un sistema discorsivo che privilegia la sintesi simbolica, l’intuizione diretta, e l’evocazione di realtà invisibili considerate eterne, neutre, accessibili a chiunque. In questo lessico, la Luce non è una metafora, ma una sostanza; l’Amore non è una relazione, ma una frequenza; l’Energia non è una costruzione culturale, ma una forza reale e impersonale.

Il problema non sta nella sincerità o nell’intensità con cui queste parole vengono utilizzate, quanto nel loro funzionamento discorsivo. Esse operano come concetti mitici nel senso barthesiano del termine: cancellano la loro genealogia, si presentano come naturali, e proprio per questo diventano strumenti di legittimazione spirituale. Chi parla con questi termini non racconta la propria visione: la enuncia come verità.

In chiave decoloniale, questo tipo di linguaggio va interrogato. Perché nella sua apparente universalità, esso cancella ogni specificità culturale, ogni storicità, ogni posizione. Non si fa mai riferimento alla cultura giapponese del Reiki, né ai concetti autoctoni come rei, ki, kokoro, né alla tradizione religiosa o filosofica in cui Usui operava. Al contrario, l’energia Reiki viene inscritta in una cosmologia sincretica, apolitica e atemporale, che neutralizza la differenza e propone una spiritualità che si pretende neutra, quando in realtà è fortemente situata nel contesto culturale occidentale post-new age.

Inoltre, questa spiritualità si costruisce per accumulo lessicale, attraverso un’estetica dell’intensità: si parla di “frequenze altissime”, di “energia di Amore”, di “potenza delle Attivazioni”, ma raramente si definisce cosa si intende con questi termini, né quali esperienze o pratiche ne sostengano il significato. La parola agisce così come veicolo di elevazione simbolica, ma rischia di perdere contatto con la concretezza, con la relazione, con il corpo.

In altre parole: più le parole si fanno luminose, più rischiano di non dire nulla. O meglio: di dire sempre la stessa cosa, e di non lasciare più spazio alla domanda.

Amore e responsabilità spirituale: il Reiki come pratica etica

Tra le parole che ricorrono nel discorso di Umberto Carmignani, Amore occupa un posto privilegiato. È l’ultima parola dell’intervista, quella scelta per definire in una sola espressione il senso del Reiki. Ma è anche la parola che attraversa silenziosamente tutto il suo racconto, rimanendo sullo sfondo delle pratiche, delle esperienze, delle attivazioni. «L’Amore per se stessi e per la Vita» è, secondo lui, il beneficio più importante che il Reiki può portare alle persone. È questa, forse, la forma più visibile del progetto spirituale che guida la Città della Luce: una pedagogia dell’amore come riconnessione, come senso ritrovato, come responsabilità verso il proprio essere e verso l’altro.

E tuttavia, in questa visione così eticamente orientata, emerge anche una tensione significativa: Carmignani segnala che la difficoltà principale dei praticanti non sta nel vivere il Reiki durante i seminari, ma nel “mantenere nella vita quotidiana l’Amore e la Consapevolezza” sperimentati nei momenti intensi della pratica. Questa ammissione è importante, perché riconosce una frattura tra esperienza liminale e ritorno alla normalità, tra lo spazio rituale e lo spazio ordinario.

In chiave antropologica, potremmo leggere questa dinamica attraverso Victor Turner: il seminario Reiki si configura come una forma di comunitas temporanea, uno spazio separato e trasformativo in cui si produce un senso di appartenenza, intensità e sospensione del quotidiano. Ma una volta finito il rito, la reintegrazione nel mondo “di prima” non è scontata. Il problema, allora, non è tanto accedere all’Amore, quanto radicarlo in un mondo che non è stato trasformato con noi.

Ed è qui che il discorso di Carmignani assume tratti interessanti. In risposta alla domanda sull’uso “pericoloso” del Reiki, egli non ricorre a rassicurazioni tecniche (“il Reiki è sempre buono”), ma introduce una distinzione sottile tra l’energia e il veicolo umano che la trasmette. Reiki, dice, è puro; ma noi non sempre lo siamo. Se hai appena litigato, forse è meglio non trattare nessuno. Non perché il Reiki sia contaminabile, ma perché la tua presenza non è neutra.

Questa affermazione, pur espressa in un linguaggio spirituale, introduce una riflessione etica profonda: il potere non è mai separabile dalla responsabilità, e ogni gesto, anche il più apparentemente “luminoso”, porta con sé il peso di chi lo compie. In questo senso, il Reiki non è mai solo energia: è energia attraversata da soggettività, emozioni, storie, intenzioni. Il praticante non è mai un canale vuoto: è un corpo che sente, un campo che risuona, un essere situato.

Da questo punto di vista, la posizione di Carmignani si discosta da molte narrative new age in cui l’energia è pensata come impersonalmente buona, eternamente disponibile, immune da responsabilità. Al contrario, qui si apre uno spiraglio per pensare il Reiki come pratica relazionale e situata, in cui la qualità del gesto dipende non da una “frequenza elevata”, ma dalla capacità di assumersi il proprio stato, le proprie fragilità, le proprie intenzioni.

E proprio per questo, la parola Amore, se strappata all’universalismo astratto e ricondotta alla sua dimensione etica, può ancora avere forza. Non come valore assoluto, ma come scelta quotidiana, incarnata, fragile, parziale. Non come “frequenza”, ma come pratica. Non come luce che ci attraversa senza lasciarci segni, ma come gesto che ci espone, ci compromette e — forse — ci mette in relazione.

Vivere la pratica: la comunità come gesto politico implicito

Uno degli elementi più rilevanti — e forse meno tematizzati — dell’esperienza di Umberto Carmignani è la fondazione della Città della Luce, comunità residenziale ed ecosostenibile che si struttura intorno alla pratica del Reiki e ad altre forme di spiritualità contemporanea. In un panorama in cui il Reiki è spesso ridotto a tecnica individuale, appresa in contesti brevi, commerciali, o trasmessa in modalità online, la scelta di fare del Reiki un principio organizzativo di vita collettiva rappresenta, pur senza dichiararsi tale, un gesto politico radicale.

Vivere insieme, condividere spazi, pratiche, ritualità e cicli di lavoro ispirati a un principio spirituale, significa affermare che la trasformazione personale non può avvenire fuori dal mondo, ma in relazione al mondo. È una presa di posizione contro la spiritualità disincarnata, contro l’individualismo terapeutico, contro la riduzione del Reiki a tecnica di rilassamento. In questo senso, la Città della Luce può essere letta come un esperimento di soggettivazione collettiva: non solo guarire se stessi, ma immaginare forme di convivenza e organizzazione sociale che siano coerenti con la pratica spirituale.

Tuttavia, questo gesto, per quanto significativo, resta implicito nel discorso di Carmignani. Non viene mai tematizzato come atto politico, come disobbedienza all’ordine neoliberale, come resistenza alle forme standardizzate della vita spirituale nel capitalismo contemporaneo. Il suo racconto resta legato a un lessico di autenticità, energia e verità individuale. Manca, forse, un’auto-riflessione critica sulla dimensione collettiva del progetto: chi può partecipare a una comunità del genere? Quali logiche economiche la sostengono? Quali differenze culturali, sociali, materiali attraversano o escludono la possibilità di una simile esperienza?

Eppure, anche in assenza di questa riflessione, la comunità resta un dato forte. Un luogo dove si vive ciò che altrove si enuncia. Un laboratorio, imperfetto ma necessario, di spiritualità incarnata, capace di porsi — forse senza saperlo — come forma concreta di alternativa al modello dominante di cura individualizzata, discontinua, privatizzata.

Il linguaggio del Reiki nelle istituzioni: sobrietà o neutralizzazione?

Nella parte finale dell’intervista, Carmignani affronta un tema cruciale: quello della diffusione del Reiki nelle strutture sanitarie. La sua posizione, almeno in apparenza, è equilibrata e consapevole: da un lato, riconosce i benefici osservabili della pratica all’interno degli ospedali (rilassamento, sostegno psicofisico, facilitazione della ripresa), dall’altro, invita a evitare l’uso di termini come terapia, cura, guarigione, diagnosi, se non si possiedono adeguate qualifiche sanitarie. In questo senso, propone un atteggiamento di sobrietà comunicativa, volto a favorire il dialogo con le istituzioni piuttosto che lo scontro.

Questa posizione merita attenzione. In un contesto italiano ancora segnato da una forte medicalizzazione del discorso sulla salute e da una persistente diffidenza verso le pratiche energetiche, Carmignani sembra orientarsi verso una strategia discorsiva “soft”: ridurre l’invadenza simbolica del Reiki per renderlo compatibile con il lessico istituzionale della medicina. Questo può apparire come una scelta prudente, persino saggia. Ma da un punto di vista critico, solleva almeno due domande.

La prima riguarda l’efficacia politica di questa posizione. È possibile rendere il Reiki accettabile alle istituzioni senza rinunciare alla sua dimensione spirituale, rituale, culturale? O la “sobrietà” richiesta finisce per diventare un’operazione di neutralizzazione epistemica, in cui il Reiki viene ridotto a tecnica di rilassamento, svuotata di ogni profondità simbolica e genealogica?

La seconda domanda tocca il cuore di ogni pratica decoloniale: chi definisce il linguaggio legittimo del corpo, della guarigione, dell’energia? E in base a quali parametri epistemologici? Nel cercare il riconoscimento delle istituzioni biomediche, si rischia di adottare un linguaggio che non è solo tecnico, ma anche gerarchico, e che rende visibile solo ciò che può essere misurato, quantificato, validato. Tutto il resto — la soggettività, la relazione, il senso — viene spostato ai margini.

In questo senso, l’appello alla sobrietà, per quanto rispettabile, rischia di trasformarsi in autocensura strategica: il Reiki viene reso dicibile nella misura in cui non disturba l’ordine medico, nella misura in cui rinuncia al suo potenziale trasformativo, nella misura in cui non rivendica un sapere altro, né una diversa cosmologia del corpo.

Va detto, però, che Carmignani non cade mai nella spettacolarizzazione esoterica. Non parla di miracoli, non promette guarigioni, non assume toni dogmatici. Il suo discorso è, sotto questo profilo, responsabile. Ma resta aperta la questione: è possibile parlare di Reiki nei contesti pubblici senza cedere alla semplificazione, né farsi riassorbire da un linguaggio che non gli appartiene?

Se il Reiki è davvero, come Carmignani afferma, una pratica di Amore, allora la sfida è proprio questa: dire l’Amore senza banalizzarlo, e allo stesso tempo non tradurlo in un linguaggio che lo renda sterile, o inoffensivo.

Conclusione – Tra coerenza narrativa e omissioni epistemiche

La voce di Umberto Carmignani si distingue per coerenza, intensità e dedizione. Nel suo racconto, il Reiki non è mai presentato come una tecnica da apprendere o uno strumento da utilizzare, ma come una via trasformativa profonda, in grado di riorientare l’esistenza, di restituire senso, e di riconnettere l’individuo a una dimensione cosmica dell’essere. La sua narrazione è ben strutturata, potente nella sua semplicità, e attraversata da un’etica della presenza che non è affatto scontata nel panorama spirituale contemporaneo.

Eppure, proprio per la forza simbolica che il suo discorso esercita, esso richiede di essere interrogato anche nelle sue omissioni, nelle sue universalizzazioni, nei suoi automatismi lessicali. I termini ricorrenti — Luce, Amore, Energia Universale, Divino — costruiscono un lessico spirituale che naturalizza il senso della pratica, facendola apparire eterna, apolitica, neutra. In questa visione, il Reiki perde ogni radicamento culturale, linguistico, storico, e si offre come esperienza “pura”, accessibile a tutti, ovunque e comunque. Una spiritualità globale senza geografie, senza genealogie, senza margini.

Da un punto di vista decoloniale, questa costruzione è problematica: perché cancella la specificità culturale del Reiki giapponese, rimuove la dimensione politica delle pratiche spirituali, e ricodifica l’esperienza in termini compatibili con l’estetica del bianco spirituale (white mysticism), che si nutre di concetti elevati ma evita ogni riflessione sui propri privilegi e sulle asimmetrie epistemiche che attraversano la spiritualità globale.

Allo stesso tempo, però, non si può ignorare la dimensione profondamente vissuta e incarnata del suo approccio: Carmignani non parla dal vuoto, né da un altrove ideale. Ha costruito una comunità, ha dato forma a una quotidianità, ha cercato — a suo modo — di vivere ciò che insegna. E questo gesto, pur nella sua ambivalenza, rappresenta una forma concreta di coerenza tra visione e azione.

Rileggere oggi questa intervista significa allora sostare in una tensione produttiva: tra spiritualità individuale e costruzione collettiva, tra linguaggio universale e storicità cancellata, tra desiderio di luce e rimozione dell’ombra. E se la parola scelta per definire il Reiki è Amore, forse il compito è proprio questo: non assumere quella parola come evidenza, ma interrogarla come pratica. Una pratica che ci chiede, prima di tutto, di non smettere di pensare.

📌 Nota editoriale

Questo articolo fa parte di un progetto di rilettura critica delle interviste pubblicate su MyReiki.it nel 2019.
A distanza di alcuni anni, rileggere queste voci alla luce di una riflessione antropologica e decoloniale significa non solo onorare il loro valore testimoniale, ma anche interrogare i linguaggi, le categorie e le visioni del mondo che vi emergono.
Queste analisi non intendono giudicare o correggere, bensì aprire uno spazio di pensiero, affinché la pratica del Reiki possa continuare a evolvere nel dialogo tra esperienza vissuta e consapevolezza culturale.

Mini‑glossario dei concetti chiave

Comunità spirituale
Forma di vita collettiva costruita intorno alla pratica del Reiki: luogo dove le dinamiche personali si intrecciano con scelte relazionali e valori condivisi.
Energia Vitale Universale
Lessico per descrivere il flusso energetico che il Reiki attiva: concepita come forza impersonale, ma inscritta in un immaginario spirituale contemporaneo.
Frequenza elevatissima
Espressione evocativa che rimanda a un linguaggio vibrazionale, tipico della spiritualità new age, con forte effetto simbolico ma limitata precisione semantica.
Amore
Parola‑chiave scelta da Carmignani per descrivere il Reiki: da intensità cosmica a pratica relazionale, carica anche di responsabilità etica.
Comunitas
Spazio temporaneo e trasformativo, simile ai seminari di Reiki, in cui si attivano legami profondi e senso di appartenenza, separato dal quotidiano.
Sobrietà comunicativa
Strategia di dialogo con le istituzioni: mantenere un linguaggio misurato (senza “terapia” o “guarigione”) per favorire l’accoglienza istituzionale.

Bibliografia

  • Barthes, R. (1957). Mythologies. Paris: Seuil.
    Trad. it. Miti d’oggi. Torino: Einaudi, 1974.

  • Bourdieu, P. (1979). La distinction. Critique sociale du jugement. Paris: Minuit.
    Trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto. Bologna: Il Mulino, 2001.

  • Butler, J. (1993). Bodies That Matter: On the Discursive Limits of “Sex”. New York: Routledge.
    Trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”. Roma: Manifestolibri, 2013.

  • Carrette, J. and King, R. (2005). Selling Spirituality: The Silent Takeover of Religion. London: Routledge.

  • Foucault, M. (1980). Power/Knowledge. Selected Interviews and Other Writings 1972–1977. New York: Pantheon Books.
    Trad. it. Microfisica del potere. A cura di A. Fontana e P. Pasquino. Torino: Einaudi, 1977.

  • Hall, S. (1996). Introduction: Who Needs Identity? In Hall, S. and du Gay, P. (eds.), Questions of Cultural Identity. London: Sage, pp. 1–17.

  • Heelas, P. and Woodhead, L. (2005). The Spiritual Revolution: Why Religion is Giving Way to Spirituality. Oxford: Blackwell.

  • Turner, V. (1969). The Ritual Process: Structure and Anti-Structure. Chicago: Aldine.

 

L'Autore

Federico Scotti

Facebook

Federico Scotti è filosofo, antropologo e maestro di Reiki tradizionale giapponese. Fondatore del Centro My Reiki, da oltre un decennio si dedica all’insegnamento e alla trasmissione del Reiki con un approccio etico, critico e riflessivo, attento alla storia e al contesto culturale della pratica. Con una solida formazione in filosofia e antropologia della salute, integra il pensiero critico con lo studio delle pratiche di guarigione non biomediche, approfondendo in particolare i temi dell’embodiment, dei paesaggi terapeutici e delle prospettive culturali e decoloniali del benessere. Autore di diversi libri sul Reiki, promuove una visione profonda e non dogmatica della disciplina, in dialogo con la ricerca antropologica e con le trasformazioni spirituali contemporanee. Ogni anno accompagna gruppi di praticanti in Giappone nei Reiki Tour, percorsi esperienziali e trasformativi nei luoghi legati alla storia di Usui Sensei. Nel suo insegnamento, integra la pratica con la consapevolezza critica: per lui, il Reiki è prima di tutto una forma di ascolto profondo e di relazione consapevole con il vivente, inteso non solo come corpo umano, ma come insieme di legami, emozioni, paesaggi e memorie. Una cura che non separa, ma connette.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *